Milano, 10 dicembre 1974. Prima visione di Gruppo di famiglia in un interno.
Il fiato della morte, l’insufficienza dell’arte a riempire la solitudine dell’uomo, il rimpianto della paternità non concesse, e nei giovani la ricerca del padre, il fascino che il male e il bene esercitano su chi non li possiede… Ancora: l’inevitabile disfarsi di quel nucleo sociale che fu la famiglia, la confusa realtà storica che attraversano l’Italia e l’Europa, e finalmente l’antico, immedicabile pessimismo sul destino degli uomini, sulla loro impotenza ad amare, riassunto nell’ironico rinvio del titolo a un modello sociale, e a un genere di pittura, la conversation piece, sepolti nei secoli senza recupero. Quante cose, e quanto malinconiche, ha messo Visconti in quello che forse resterà uno dei suoi film più personali, certamente più sinceri. Troppe? Ma non c’è da dolersi che la limpidità dello assunto vada a scapito della potenza drammatica con cui il film dice l’angoscia di Visconti, portavoce fra i più illustri d’una famiglia di autori che si è formata nel clima del decadentismo, e fa consistere la virtù dell’arte nella rappresentazione critica d’una catastrofe cui concorrono storia, morale e società.
A chi chieda se il film tradisca le stanchezze di un uomo malato si risponde di no. Accade il contrario: che Visconti, rinunciando ai languori di un estetismo da capezzale e alle fughe letterarie, entri con furiosa fantasia nel cuore dell’epoca, e la svisceri e la batta. L’esito di questa sorta di colluttazione può lasciarci insoddisfatti, per un sospetto di fatalismo che sembra governarla, ma indubbia è la parte che il razionale Visconti continua ad assegnare alla forza della passione nell’inverarsi dei destini umani. Un vinto non ha quest’occhio caldo e questa mano prensile.
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Al pessimismo della ragione, Visconti non contrappone più, come nell’età verde, lo ottimismo della volontà. Testimone di una generazione lacerata dai complessi di colpa, che ha vissuto (è una battuta-chiave del film) la impossibilità dell’equilibrio fra politica e morale, Visconti afferma che il prezzo del progresso è la distruzione: non soltanto dei sistemi e delle classi nelle cui mani è il potere e il metro del bello e del buono (essi si auto-demoliscono giorno per giorno) ma della stessa utopia di un amore universale, d’una fiducia nel valore positivo della protesta, troppo compromessa per essere credibile.
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Amarissimo ritratto di una sofferenza in cui anche si esprime il tramonto della libertà, il film racconta questa tragedia, biologica e storica, con un senso insieme classico e moderno della drammaturgia. Definiti strada facendo i caratteri, e lasciando loro intorno una larga zona di inespresso (i flash-backs sulla madre e la moglie del professore sono spie subito chiuse), Visconti si dedica con costante puntiglio all’analisi critica dei personaggi, dei conflitti e dello loro ambiguità socio-culturali. Le sue simpatie non vanno, come potrebbe sembrare, al professore, murato nel miraggio dell’autosufficienza: semmai a Konrad, il più denso e infelice. L’immagine che offre del gruppo riecheggia il gusto del teatro espressionista, con le consuete inflessioni melodrammatiche, ma non per questo manca di concretezza. Più luoghi hanno un’intensità di accenti e ricchezza di prospettive psicologiche (anche tocchi di humour) che appartengono al Visconti migliore. I riferimenti alla cronaca degli ultimi mesi sono un po’ forzosi, e nella seconda metà contorsionismi e capziosità sono addebitabili alla sceneggiatura (Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli: quest’ultimo autore del soggetto), ma il film nel suo insieme dirà bene ai posteri come e perché agli intellettuali di tradizione liberale sembrò che gli anni Sessanta bruciassero nell’esasperata convulsione dei rapporti personali le ultime stoppie della ragione, tal ché non rimanessero che lamenti. Al pubblico d’oggi dice con quanto accorato vigore artisti quali Visconti si sentano partecipi del dramma, e nel rappresentarlo anche si giudichino.
Giovanni Grazzini
(Corriere della Sera)