« Quando sentii questo racconto per la prima volta mi sembrò di averlo già ascoltato, tanto tempo fa… Pensai che fosse la ripetizione di un mito greco, la cui eco risuonava nel fondo della mia mente. Non sono riuscito a trovare quale mito fosse, ma la convinzione persiste…

Ho spesso pensato che i “clandestini” che arrivano in casa di Eddie dall’Italia sono partiti, per così dire, duemila anni fa. C’era una tale purezza, una tale autonomia negli scopi di tutte le persona che  s’incontrano in questa storia che l’intrecciarsi delle loro vite sembrava quasi l’opera di un fato.

Ho tentato di spingermi fin dove la mia ragione mi permetteva, nella ricerca e definizione degli elementi  soggettivi e di quelli oggettivi che fecero quel fato, ma devo confessare che alla fine rimane per me una specie di mistero: e non ho tentato di nasconderlo.

Conosco molti modi di spiegare questa storia, ma nessuno ne svela pienamente il significato. L’ho scritta per scoprire i sensi reconditi, ma a tutt’oggi non li ho scoperti tutti, tanto ch’io provo ancora un certo stupore, una sensazione di attesa che deriva, credo, dal fatto di essermi in qualche modo imbattuto in un racconto “incantato” ». Così dice Arthur Miller di Uno sguardo dal ponte.

Il mondo che il drammaturgo americano contemporaneo si trova a rappresentare dunque, a doversi chiarire, è quello delle pressures, cioè delle pressioni che vengono esercitate sull’uomo. Dall’interno o dall’esterno. Ad Arthur Miller le pressioni esercitate su Eddie Carbone si presentano in termini di leggi contrastanti. Per questo è un avvocato che racconta la storia. L’avvocato della povera gente non è altro che l’autore il quale prosegue, nel corso del dramma, una sua meditazione sul concetto stesso di legge. Perché in questa storia agiscono, o si possono riconoscere, vari tipi di legge: una è quella dell’istinto, un’altra quella del sottomondo della mafia, infine la legge di un paese civile, qual’è l’America, i cui cittadini hanno cessato di ricorrere al coltello e ricorrono al tribunale.

Tutte e tre queste leggi esistono, e Miller si guarda bene dall’emettere un giudizio morale su una di esse. Tanto più che se la prima richiama il problema di una libertà di espressione, la seconda quello della dignità e dell’onore degli uomini umiliati, dei paria, e la terza le regole da osservare in una convivenza civile.

Ora, la passione di Eddie Carbone, seguendo la pressione oscura degli istinti, lo porta a violare la legge primitiva dell’omertà, compiendo al tempo stesso un atto che è invece lodevole per le leggi del paese: per le quali è bene denunciare colui che è “clandestino”, colui che non è ammesso dalle leggi della società.

Qual è la legge che dovremo seguire, dunque? Si tratta, in fondo, della stessa domanda che Miller pone all’origine del proprio teatro: « come dobbiamo vivere »? A chi gli obietti che il caso di Eddie Carbone è un quadro di confusione morale, anzi premorale, l’autore può certamente rispondere che la confusione non esiste soltanto nella testa di Eddie Carbone, uomo che va alla rovina « senza sapere perché » (e dice Miller che il dramma « non si propone di strappare lacrime o risate, ma di sottolineare lo stupore che ci dà la corsa di un uomo verso la completa rovina »). Ed il fatto che lo spettatore di New York o di Londra o in generale d’Europa si riconosca in questo personaggio ne è la prova, e anche questo dovrebbe produrre stupore: che ci si riconosca oggi più compiutamente in un ladro di biciclette o in un pescatore o in un emigrante in cerca di una maggiore « dignità ».

I « clandestini », sembra dire Miller, arrivano in un paese civile e portano con sé la loro legge primitiva, e per questo il loro arrivo turba, e imbarbarisce l’ordine della società esistente. Ma insieme, non è la presenza stessa di « clandestini » in questa o quella parte del mondo, il segno che quella legge « civile » non afferra tutto, non comprende, non riflette abbastanza dell’uomo? Non è la presenza contemporanea di multiple leggi contemporaneamente accettate dall’uomo la ragione della confusione, del pregiudizio e del male? Eddie invoca una legge che punisca colui che gli ha fatto un affronto ed è divenuto il suo nemico; Marco chiede una legge per punire chi l’ha tradito. Ma non esistono leggi che li soddisfino: questo potrebbe dire che le loro esigenze sono ingiuste, o che la legge « non corrisponde », come dice l’avvocato « alla natura ». Ma essi non lo sanno, ed è al dramma di questo « non sapere » (che è il nostro stesso, sottolinea l’autore, di spettatori e attori nel mondo d’oggi) che noi assistiamo, invitati a partecipare e a riflettere.

È lo spettacolo oggi più affascinante, per l’uomo che si dice civile, osservare quanto il suo simile (specchio di se stesso) sia rimasto primitivo nell’epoca orgogliosa della scienza. E questo nel Transvaal come in Ungheria, nei bassifondi di Palermo come in quelli di New York. Allora il quadro che ne deriva è, sì, come dice Mary McMarthy, quello di un uomo delle caverne contemporaneo, ma vuol essere un ulteriore appello all’attenzione. « Attention, attention must be given », (come dice il finale del Commesso viaggiatore), dall’uomo ai suoi simili e al problema morale che è quello stesso della sopravvivenza della civiltà.
(dal programma si sala di Uno sguardo dal ponte, prima rappresentazione italiana al Teatro Eliseo di Roma, 18 gennaio 1958, regia di Luchino Visconti)