
Roma, 16 gennaio 1958
Non saremmo certo noi che vorremo negare al regista, anche di teatro, il diritto alla vacanza, all’opera d’impegni minore, all’amabile esercitazione formale. Abbiamo perciò gradito straordinariamente l’edizione che Luchino Visconti ha dato a Roma de L’impresario delle Smirne, facendoci assistere all’espressione di un alto magistero di arte registica. Ma il vuoto che lo sfavillio delle immagini e dei suoni ci ha poi lasciato dopo lo spettacolo, vuoto dovuto alla povertà del testo — fra i più manieristici che abbia composto il fecondissimo Goldoni — ci ha indotto a chiederci se si trattava di una vacanza, oppure di una diversione. In questi decenni molti sono i miti crollati, e alcuni troppo fragorosamente per non lasciare in noi delle tracce. Ma in una convinzione restiamo incrollabili: che non si debba mai volontariamente soccombere, che non si possa per nessuna ragione rinunciare al proprio compito, per modesto che sia, a costo perfino di attuarlo per vie traverse.
Mentre si parla di distruggere intere nazioni in poche ore, mentre la voce dello spirito tra questi terrori si fa sempre più flebile, e vediamo nel nostro Paese vivere uno spettacolo — lo spettacolo rappresenta oggi forse la preminente attività spirituale per la sua diffusione — così povero di di risorse originali e di facoltà autentiche; assistere al primo degno della stagione romana, restarne affascinati per la ricchezza delle sue risorse espressive, ma sentirne al tempo stesso la sostanziale vacuità, ci sembra grave, anche se l’episodio di per se stesso è giustificabilissimo, e anzi per più lati notevole. Ci sembra di assaggiare le “brioches” di Maria Antonietta. Si diffonde ormai una tendenza a considerare fuori tempo l’atteggiamento polemico, a compiacersi del virtuosismo, a considerare di cattivo gusto ogni ribellione alla cose come stanno, a guardare con pacata indifferenza alle sventure fin quando le si presumono altrui. Luchino Visconti non può certo venir accusato di questo: anzi, se ne è sempre difeso con la maggior tenacia. Pure, se nel ’47 metteva in scena Le nozze di Figaro (e Beaumarchais appariva ancora conturbante per il nostro mondo retrivo!) e preparava La terra trema, mentre nel ’57 ci presenta Le notti bianche e L‘impresario delle Smirne, ciò non è del tutto casuale, e l’evoluzione non può venir addebitata soltanto a pure ragioni artistiche.
Vorremmo bene che L’impresario delle Smirne restasse una vacanza, e l’accoglieremmo con festosità se ci consentisse il riposo dopo spettacoli ponderosi e impegnativi. Purtroppo nasce invece a Roma in mezzo a una congerie di rappresentazioni mediocri e meno che mediocri, false, convenzionali, insignificanti. Vi si respira finalmente un’aria di decoro e di esperto, libero, trascinante senso dello spettacolo, ma perché non confessare il desiderio di ben altro ossigeno? Sappiamo che la vita quotidiana dello spettacolo impone pause, rallentamenti, diversivi. Il critico può sembrare talvolta impaziente. Nella prospettiva degli anni gli avvenimenti non restano più così isolati e deboli come quando li si osserva nella cronaca quotidiana. Fra le centinaia di mediocri lavori dell’altro dopoguerra si fece luce Pirandello: e la sua opera è bastata a un’epoca teatrale. Ciò non toglie che non sia necessario un’indirizzo stimolante nella direzione che si ritiene fruttuosa. E che non si debbano frenare in ogni modo le tentazioni di un’involuzione, e sopratutto l’abitudine a un cibo incapace d’infondere vitalità. Il grave è che delle abitudini naturalmente non ci si accorge, e che a un certo punto ci si trova al buio senza essercene resi conto. Lo spettatore ammiri e ami la realizzazione scenica de L’impresario delle Smirne, i suoi brillantissimi interpreti. Ma qualche spettatore pur ritenendo così piacevole l’intermezzo, non può fare a meno di attendersi dalla ribalta qualche luce sul mondo moderno, che sia nostra, e non quella riflessa dalle commedie anglo-americane, le nobili e le meno nobili di grande successo.
Non lo si chiami incontentabile.
Vito Pandolfi
(Cinema Nuovo)