A che punto è il cinema? Nessun momento, credo, come l’attuale sfugge ad una diagnosi circostanziata. E a questa indagine — che sarebbe per dir poco, doverosa, — sembra volersi sottrarre sopratutto il cinema italiano. Neorealismo? E chi se lo ricorda! Intimismo? Camerini s’è ritirato da tempo e ora piega il genere strettamente commerciale. Allora un post-espressionismo? No, non usiamo parole grosse a Cinecittà dove tutti sono dottori e nessuno è dotto. Insomma: si torna egli uomini e non alle correnti dai veri e falsi adepti. Si torna a parlare del regista e non del gruppo, si riprende il discorso intorno a De Santis (che sta per presentare Roma ore undici) obliando, per la prima volta, la « genesi di un realismo » e mettendo a fuoco chi davvero ci interessa: l’uomo creatore. Avulsi dalla corrente, strappati alle braccia di una madre comune che poteva definirsi « scuola neorealista italiana », i registi ora avranno valore per quello che singolarmente ci sapranno dare, al di fuori di ogni considerazione collettiva, di ogni comparazione indulgente e soprattuto senza che la vista critica sia « aiutata » dalle lenti dell’equivoco.
La premessa nostra — che per certi versi non riesce neppure a tirare le somme — ci permette tuttavia di mettere a fuoco il problema che ha aperto il 1952: il valore di Luchino Visconti. Nella frettolosa catalogazione delle forze del nostro cinema, forse per suggerimento della critica straniera forse per la faciloneria di molti recensori italiani, i nomi che insistentemente comparivano erano (facile immaginarlo): Rossellini, De Sica, De Robertis, e poi De Santis e Zampa. E Luchino Visconti? Ricordato solo da pochi, dai veri critici, possiamo precisare, per i quali la memoria di Ossessione (1943) non era affatto svanito, ma anzi contava come la autentica genesi della storia neorealista.
Visconti, si diceva, comparve con Ossessione a ricordarci che una realtà « cinematografica » esisteva e poteva essere espressa al di fuori delle restrizioni censoriali, anche in tempi di sopraffazioni. E fu una lezione che contò assai. Ricomparso nel 1949 con La terra trema, il regista ci rapportò ancora quello che potevamo aver ignorato: la visione chiara, limpida di una realtà che pur consegnandoci un tempo, una stagione si perpetuava secondo temi eterni come il mondo. Ci trovammo allora di fronte al vero uomo di cinema, comparabile per potenza ad un Dreyer, e ai pari di Dreyer fornito di quella forza che sfida le leggi per crearne delle nuove. Un narratore al quale solo i superficiali faciloni recensori potevano rimproverare la « lentezza » un considerevole talento che aveva l’aria di conoscere tutte, nessuna esclusa, le risorse dil cinema e le adottava con la perfetta sapienza di chi sa arrivare al vero racconto, all’essenziale. C’è da gridare al capolavoro, e non ci siamo certo sottratti all’impegno. Quando in seguito, su uno schermo straniero, abbiamo rivisto La terra trema ridotto dai tagli a metà, Visconti aveva ancora ragione: il suo film poteva reggersi anche su vaghi frammenti, tanta era la potenza che essi racchiudevano, fotogramma per fotogramma.
Oggi siamo al cospetto di Bellissima, un film di primo acchito — forse per l’ambientazione, forse per l’impiego di una clamorosa Anna Magnani — sembra allontanarsi assai dalla « linea Visconti ». E in realtà vi rientra in virtù di tutte le doti che il regista possiede e che non esita a palesare.
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Processo al cinema? Forse no. Piuttosto, processo ad una società. E tante altre domande che non avranno risposta, ma che il regista (sulla scorta di un ben congegnato soggetto di Zavattini) ha fatto bene a porre. Ha torto la madre a sperare per la figlia un avvenire migliore del suo e a mettere in campo tutte le speranze? (La risposta la potrebbero dare le mille, duemila madri che ogni anno sospingono le loro ragazze sulla strada del cinema obbligandole alle forche caudine dei concorsi di bellezza). Ha torto il cinema ad essere così freddamente esclusivista, a servirsi del materiale umano come un costruttore può giovarsi del materiale laterizio? (È una industria, si dice, e la industria non ha sentimento; ma non è una risposta). È legittimo che una moglie eluda il controllo del marito, quasi lo frodi solo per realizzare alla figlia un futuro di illusioni, tutto affidato alla fortuna col minimo margine di possibilità?
Ho letto le recensioni di Aristarco e di Alvaro, prima di stilare questa nota. Ma non è affatto il caso di entrare in polemica, poiché entrambi mettono giustamente in valore quel che è il perno del film, il clou che Alvaro opportunamente sa cogliere: « Il rapporto tra genitori e bambini, i figli come pegno per un avvenire migliore, come rivincita da una condizione sociale indistinta ». Un aspetto curioso di Bellissima sta nella sua, diciamo così, pirandelliana faccia. Mi spiego: molti, moltissimi (e niente affatto ignari della cosa cinematografica) l’hanno classificato come lo sforzo di un regista per mantenersi coerente alle sue premesse e al tempo stesso preoccupato di immettere nel mercato un film di buone possibilità commerciali con la chiara marca di un prodotto semi-industriale (si citano a questo proposito molte scioltezze, molte fluidità, che sembravano sconosciute al nostro cinema). Altri invece insistono nella conclusione: « Visconti non ha concesso nulla, neppure con la scrittura della Magnani e di Walter Chiari — il nome che è forse di maggior richiamo, oggi, dopo Totò — perché tanto Chiari come la Magnani sono essenziali per un racconto che finalmente strappa i brandelli del neorealismo alla corrente impetuosa e li fa ridiventare panni nuovi, nuovissimi ». Argomento, quest’ultimo, che ci trova d’accordo. E ci trovano egualmente alleati coloro che classificano il film come « eccellente » e applaudono alla interpretazione di Anna Magnani, di Walter Chiari, della Apicella, del Renzetti, della Scarano (perfetta, perfetta strega!) e del regista Alessandro Blasetti diventato insperatamente un bravo attore.
Franco Berutti
(tratto da Sipario, gennaio-febbraio 1952)