Spoleto, giugno 1958.

L’organizzazione di Giancarlo Menotti ha operato a Spoleto delle trasformazioni incredibili: qui c’erano strade, piazze, palazzi, chiese, anditi e scalinate, di grande bellezza, mai rovinate da intrusioni del tipo moderno-povero; due teatri stupendi; e una povertà piuttosto diffusa. Adesso le architetture sono sottoposte a restauri, e rinfrescate; vasi e lampioni fioriscono; brillano le foglie, e le fontane ridanno acqua; mentre una folla di tutti i colori ha preso possesso della città, sotto gli stupefatti occhi della popolazione, gira dappertutto, spende soldi. L’arrivo degli splendidi pellegrini può ricordare gli inizi di Salisburgo, con Mozart e Paumgartner, Moissi in piazza, i ricevimenti di Hofmannsthal, con Richard Strauss e Stefan Zweig; i primi Maggi Fiorentini, con la Principessa di Piemonte che si faceva spiegare tutto da Alfredo Casella, e Bellini alle prese con De Chirico; e insieme il rilancio di Capri in questo dopoguerra.

Entrando a Spoleto, si aveva la sorpresa di trovare i selciati cosparsi di petali gialli e rossi e viola e turchini, drappi di seta e damasco, paramenti, vasi di gerani alle finestre e ai balconi, ma non per iniziativa del Festival: la fastosa processione che uscì dalla Cattedrale alle sette, sfilando lungo le straordinarie architetture della piazza e delle scalinate, era il tradizionale corteo del Corpus Domini. Non era ancora finito il corteo, che la popolazione si riversava, assieme a macchine, carrozze, e camioncini di Sound Stages Ltd., alle porte del Teatro Nuovo, dove per un’ora e mezzo si sono susseguiti i sensazionali arrivi degli invitati all’apertura del Festival, fra continui applausi dell’enorme pubblico. Su larghe automobili, aperte e chiare, giungevano gli ambasciatori Zullerbach e Dunn, i miliardari, le bellissime che avevano fatto migliaia di chilometri per essere vicini a “Gi-iancarlo”; e hanno presto riempito il Teatro, per assistere al Macbeth inaugurale: personaggi di favolosa eleganza, e non meno colorati delle figure mitologiche sul soffitto.

Mentre le più celebri contemporanee (la Crespi, la Pallavicini, la Pavone) si sono presentate la seconda sera, al Teatro Caio Melisso, al Macbeth trionfavano sopratutto gli anziani: le americane più che settantenni, consorti di petrolieri, attrici del muto, cantanti apparse al Metropolitan con Caruso e Tamagno, padrone di salotti famosi nel 1890, con facce bianche e nere, capelli rossi o nerissimi o blu, braccia secche, labbra da oracolo, vitalità nervosissima, rauche voci stupende, pesanti gioielli, mani balze frange scialli e cascate di materiali lucidi e preziosi, acconciature come quella del soprano Gladys Axman Taylor, la più sensazionale di tutte.

(…)

Agli spettacoli è stata più numerosa naturalmente la gente romana, con le belle principesse che si chiamano Aldobrandini, Boncompagni, De Drago, Ludovisi, Galitzine, Spada Potenziani, e le loro nobili parentele umbre e toscane; c’erano Laura Adani, duchessa di Grazzano, Tullio Carminati, Mimi Pecci-Blunt; il più brillante gruppo di teatranti giovani, Peppino Patroni Griffi, Nora Ricci, Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Renato Salvatori, Luca Ronconi, con molti minori adepti (ma mancavano, del gruppo, per impegni di lavoro, Marcello e Flora Mastroianni, e l’intera compagnia Falk-De Lullo- Guarnieri-Valli, che arrivano per la chiusura); c’erano Suso Cecchi D’Amico, il conte Volpi, la contessa Spalletti, Paola Masino, Giorgio Vigolo, Leda Mastrocinque, Livia de’ Stefani, una Palma Bucarelli vera (in faille rosso) e una falsa (in broccato scuro), Maria Salata, Desideria Pasolini, l’avvocato Graziadei, Giancarlo Zaffrani, Ruggero Nuvolari, il principe Caracciolo, Wanda Gawronska, le signore Buitoni e Spagnoli; c’erano i pianisti Gold e Fizdale, Herbert Graf, Trudy Goth e sua madre, c’era, carica di coralli, Mrs. Close, proprietaria della villa della Napoule, in Costa Azzurra; e un grosso gruppo femminile milanese, guidato dalla contessa Toscanini, con la figlia Acquarone, e dalla Camilla Cederna, con Bice Brichetto, Ida, sorella di Luchino Visconti, la bella Rita Denari (di Voghera) con la principessa Ruspoli, Maurizia Zelaschi (di Rivanazzano) e la mamma di Antonio Radaelli; c’era, in bianco e blu, e Cadillac, Mrs. Ines Brown, inviata del Dipartimento di Stato, e c’erano i Carrara-Verdi, discendenti del Maestro.

Macbeth 1958 regia di Luchino Visconti
Giancarlo Menotti con Luchino Visconti, che dà istruzioni a un elettricista.

Lo spettacolo Macbeth è stato notevole: una delle migliori produzioni di Visconti, e un grosso trionfo del direttore Thomas Schippers. Schippers “ha capito tutto” (anche se il suono del suo Verdi è stato trovato un po’ insolito), proprio perché ha saputo fare intendere il fascino un po’ ambiguo di questa musica che mescola le cose più belle a manifestazioni di gusto discutibile, il dramma sublime alla volgarità, l’alto suono della tragedia e la giostrina da luna-park periferico, in una contaminazione che va benissimo per un pubblico sofisticato come questo.

Luchino Visconti, aiutato da collaboratori bravissimi come Piero Tosi e Enrico Medioli, ha dedicato all’allestimento cure non certo inferiori a quelle di Verdi stesso, esigentissimo regista delle proprie opere, e che proprio per questo Macbeth si era installato a Firenze nel 1847, convinto, col librettista Piave, che si trattasse dell’« opera più importante finora apparsa sulle melodrammatiche scene italiane, e che avrebbe aperto nuove strade ai musicisti presenti e avvenire ». Visconti ha fatto dipingere da Tosi una serie di meravigliose scene di rovine, cortili piranesiani dipinti su labile tulle, che a seconda delle luci si dissolvono in orride foreste, o tornano a rinchiudersi in interni senza cielo. I personaggi vestiti dai cupi velluti tardoromantici di Hayez e di Ussi si muovono e si raggruppano in eleganti atteggiamenti, attraversati da bagliori purpurei, percossi da angosce, fra apparizioni di seggioloni finto-gotici, bianchi mantelli insanguinati, tavole imbandite al lume delle fiaccole, boschi rossi come azalee, spettri di Banco che (come Verdi prescriveva) « sorgono di sotterra in un velo cenerino, con capelli rabbuffati e diverse ferite nel collo visibili ».
(tratto dalla cronaca di Luciano Neri, pubblicata in Settimo Giorno, 19 giugno 1958)

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