Buenos Aires, 19 luglio 1955
Vi presentiamo una delle personalità d’artista più interessanti, ed insieme più discusse e clamorose del cinema italiano: Luchino Visconti, il regista di Senso che ormai, a fine stagione, può dirsi decisamente il più bel film italiano dell’annata.
Uno che fosse capitato all’ippodromo parigino di Longchamp attorno al 1938 in una giornata qualsiasi tra i box dei purosangue, non avrebbe notato in mezzo agli uomini intenti al lavoro un giovane che pure aveva una singolare espressione. Un profilo da medaglione trecentesco italiano, con un naso adunco come un rostro, due occhiaie profonde, poderose, un paio di sopracciglia irsute, due occhi conturbanti. Quell’uomo era il Conte Luchino Visconti di Modrone, discendente diretto di quei Visconti che furono signori di Milano e potenti d’Italia quanto gli Sforza, gli Scaligeri o i Medici.
Appassionato di cani e di cavalli come i suoi avi, Luchino Visconti viveva in quel tempo da bohémienne, anche la vita artistica di Parigi, irrequieto ed incerto come lo era tutta la giovane intellettualità in quel momento tempestoso, oscuro, per l’Europa. Fu, tra l’altro, aiuto regista di Jean Renoir in quel capolavoro che è Partie de campagne, e che la guerra interruppe.
Il vecchio artista ed il suo giovane assistente si separarono. È strano: emigrato a Hollywood, Renoir si avviava verso il tramonto, mentre Visconti, tornando in Italia, avrebbe fatto udire poco dopo, con il primo film da lui diretto, la prima battuta di quel grande corale tragico che è stato il neorealismo cinematografico nazionale.
Ossessione 1942: un grande film, ispirato a The Postman Always Rings Twice di Cain. Un film fatto ai margini del cinema ufficiale e fuori dagli studi, fuori dalle convenzioni del momento. Un atto di rivolta estrema contro il conformismo di quel tempo: un’espressione esasperata di rottura, un anelito di ricerca, una presa di coscienza. Quando il film apparve — senza il nome di uno degli sceneggiatori, Mario Alicata, arrestato nel frattempo — per l’intellighenzia d’opposizione fu come un bagliore folgorante nelle tenebre. E per le sfere ufficiali fu l’inferno. Il film fu istericamente attaccato, denunciato, e infine bandito. Il gran pubblico lo vide soltanto dopo la liberazione.
Uomo di teatro anche — a Parigi aveva lavorato con Cocteau — ed esteta raffinato, uomo di cultura, Luchino Visconti prese d’assalto nell’immediato dopoguerra le scene romane come aveva fatto quell’enfant terrible francese a suo tempo, con quelle parigine, e ne fece un terreno di battaglia, di ricerca, di polemica estrema, come lo era stato, in certo senso quella di Ossessione. Con La macchina da scrivere di Cocteau, con A porte chiuse di Sartre, e Antigone di Anouilh, con Come vi piace di Shakespeare, con La via del tabacco di Caldwell, con i lavori più diversi eppure con un unico linguaggio un’unica idea, egli attaccò e sconvolse un complesso di convenzioni, di gusti acquisiti. La reazione del pubblico fu a volte furibonda. Per i frequentatori del romano Teatro Eliseo rimangono indimenticabili certi vivacissimi battibecchi fra spettatori ed attori, mentre Luchino Visconti alla ribalta sorrideva maligno, inchinandosi al loggione e ostentando magari un maglione rosso di fronte alla platea elegantemente scandalizzata.
Poi Visconti tornò al cinema. Partì con una macchina da presa ed un finanziamento irrisorio, per girare un documentario tra i pescatori di Aci Trezza, sulla costa della Sicilia ellenistica. Ne venne fuori un film che avrebbe dovuto essere completato da una serie di episodi sui minatori e sui contadini da girare successivamente, una grandiosa trilogia della Sicilia, con una concezione degna di Verga. Mancarono i finanziamenti adeguati, sopravvennero degli ostacoli d’ogni sorta, e di quella composizione vide luce solo un film: La terra trema. Una delle opere fondamentali del neorealismo italiano.
Nella antica villa sulla Via Salaria, dove Luchino Visconti vive tra preziose collezioni di oggetti d’arte — è celebre una sua raccolta di porcellane — altri progetti di film maturarono: tra l’altro, una riduzione di Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini, che poi non doveva essere lui a realizzare.
Ma intanto Visconti, per il quale gli anni non passavano invano, e le cui esperienze si risolvevano in una profonda maturazione spirituale, artistica, si evolveva verso uno stile nuovo, autenticamente realistico, e si spogliava dell’estetismo, del decadentismo, dimettendo quelle espressioni estremistiche, di vecchia avanguardia, che aveva caratterizzato in parte la sua prima produzione, ed avviandosi verso un equilibrio nel suo linguaggio, in un mondo culturale, artistico, ormai maturato a sua volta.
Nel 1951 egli creò con Bellissima un film schiettamente popolare, sanguigno, gustoso, acremente polemico, pieno di vita, e psicologicamente raffinatissimo: magistrale come saggio di regia. Nello stesso periodo, Visconti curò un’edizione de Le tre sorelle di Cechov ed una Locandiera di Goldoni, sulle scene romane, che poterono dirsi perfette come equilibrio, e d’una rara bellezza. L’enfant terrible aveva ceduto il posto ad un artista maturo.
Fra il ’53 ed il ’54 Luchino Visconti tornò al cinematografo. Alla testa di un vero e proprio esercito, scatenò di nuovo tra austriaci e piemontesi, la guerra del 1866 sulle colline veronesi. “Fu un Visconti a far costruire questa strada tra Lombardia e Veneto, ed un altro Visconti la cambierà!” disse un giorno, con lo spirito tirannico che egli unisce alla squisita dolcezza e signorilità di tratto. E quella strada, ora asfaltata, fu ridotta a battuto: centinaia di pali telegrafici furono abbattuti, il tracciato fu deviato. Poi trascinò l’intera aristocrazia veneziana alla Fenice, a far da comparsa per una sequenza che si svolge in quello storico teatro. Sconvolse con cannonate e rovinosi passaggi di cavalli e di traini d’artiglieria la campagna veneta, bruciò fenili e mise in stato di assedio interi villaggi. Infine, un uragano di fischi si udì nella sala del Palazzo del Cinema, alla Mostra di Venezia come in anni lontani, erano una protesta perché Senso non ebbe il Leone d’Oro.
Un fervore eccezionale di discussioni, un appassionante dibattito critico, un eccezionale successo tra la critica stessa e presso il pubblico, hanno comunque, l’inverno scorso in Italia consacrato Senso: che è un’autentica opera d’arte, un saggio raro di equilibrio stilistico, di nuovo realismo cinematografico.
Ma si erano appena spente le discussioni su quel film, ed altre si accendevano: su una singolare edizione de La Traviata di Verdi, curata ora da Luchino Visconti sul palcoscenico della Scala. E dimenticavamo di dire che egli, quest’inverno, ha fatto anche da supervisore per un grande spettacolo di rivista…
Paolo Jacchia
(Corriere degli italiani)