Roma, 18 ottobre 1960. Sul numero di Vie Nuove di questa settimana, Visconti ha spiegato i suoi intenti ideologici nel film Rocco e i suoi fratelli. L’articolo, di estrema chiarezza e rigore, parte dall’analisi dell’educazione « meridionalistica » in cui si è formato il regista, delle sue fonti culturali da Verga a Gramsci. Dopo questa premessa, Visconti passa a parlare del suo film.

Da Verga a Gramsci Luchino Visconti 1960La chiave di volta degli stati d’animo, delle psicologie e dei conflitti, è per me prevalentemente sociale, anche se le conclusioni a cui giungo sono soltanto umane e riguardano concretamente gli individui singoli. Il lievito però, il sangue che scorre nella storia è intriso di passione civile, di problematica sociale.

E così Rocco. La questione dei rapporti tra fratelli e tra figli e madre non mi ha certo interessato meno di quella che una simile famiglia provenisse dal Sud, fosse una famiglia meridionale. Operando questa scelta, non mi sono limitato però alla ricerca d’un materiale umano particolarmente suggestivo, ma ho consapevolmente deliberato di tornare sul problema del rapporto tra Nord e Sud, così come può tornarvi un artista il quale voglia, per così dire, non soltanto commuovere ma invitare al ragionamento.

Si rifletta a questo: in un momento in cui l’opinione ufficiale che si tende ad accreditare è quella di un Mezzogiorno e di una Sicilia e di una Sardegna trasformati dalla presenza d’un maggior numero di strade asfaltate, di fabbriche, di terre distribuite, di autonomie amministrative assicurate, io ho voluto ascoltare la voce più profonda che viene dalla realtà meridionale: vale a dire quella d’una umanità  e di una civiltà che mentre non hanno avuto che briciole del grande festino del cosiddetto miracolo economico italiano, attendono ancora di uscire dal chiuso di un isolamento morale e spirituale  che è tuttora fondato sul pregiudizio tipicamente italiano che tiene il Mezzogiorno in condizioni di inferiorità rispetto al resto della nazione.

Forse ho forzato questo tema in modo energico e persino violento, ma nessuno potrà rimproverarmi di averlo forzato in modo arbitrario e propagandistico. Mi potrei avvalere del conforto della cronaca che registra ogni giorno l’odissea dei lavoratori meridionali che vanno al Nord in cerca di lavoro e di fortuna.

Ma per quanto mi sia facile affermare che la storia di Rocco e i suoi fratelli potrebbe benissimo figurare in una di quelle notizie di cronaca, io desidero rivendicare il carattere di tipicità. Nella particolarità del tutto fantastica dei miei personaggi e della vicenda, io credo di aver posto un problema morale e ideale che è tipico del momento storico in cui viviamo e che è tipico dello stato d’animo aperto, da un lato, alla speranza e alla volontà di rinascita dei meridionali e, dall’altro lato, continuamente respinto, per l’insufficienza dei rimedi, verso la disperazione o verso soluzioni del tutto parziali come quella dell’inserimento individuale, di ogni singolo meridionale in un modo di vita impostogli dall’esterno.

In questo quadro ho collocato la mia vicenda che, come è noto, arriva fino al delitto, centrando un aspetto del carattere meridionale che mi pare di grande importanza: il sentimento, la legge, e il tabù dell’onore. Rispondo alla seconda questione. Il tema della sconfitta, della irrisione, da parte della società, dei più generosi impulsi individuali, è un tema moderno quant’altri mai. Vi sono tuttavia almeno due modi di trattarlo. Vi è un modo estetico e compiaciuto che io non esito a definire asociale, anzi antisociale. Vi è un modo, invece, che esamina le condizioni della sconfitta nel quadro delle difficoltà imposte dall’ordine costituito e che tanto più si arricchisce di speranza e di energia, quanto più fa emergere dalla rappresentazione artistica il volto reale dell’ostacolo e il rovescio luminoso di una diversa prospettiva. Verga arrestava il suo processo inventivo e analitico alla prima fase di questo metodo. Il mio tentativo è stato quello di estrarre dalle radici stesse del metodo verghiano, le ragioni prime del dramma e di presentare al culmine dello sfacelo (nella Terra trema: il dissesto economico della famiglia Valastro; in Rocco: la frana morale nel momento di maggiore assestamento economico) un personaggio che chiaramente, quasi didascalicamente (non ho paura della parola) le mettesse in chiaro. Qui in Rocco, non a caso questo personaggio è Ciro, il fratello divenuto operaio, che non soltanto ha dimostrato una capacità non romantica, non effimera di inserirsi nella vita, ma che ha acquistato coscienza di diversi doveri discendenti da diversi diritti.

Tutto sommato, e devo dire senza quasi accorgermene, il finale di Rocco è riuscito un finale simbolico, direi emblematico delle mie convinzioni meridionaliste: il fratello operaio parla col più piccolo della famiglia d’una visione futura del suo Paese che raffigura quella idealmente umanitaria del pensiero di Antonio Gramsci.

Pessimismo il mio? Esasperazione e forzatura polemica di tutti i conflitti?

Pessimismo, no. Perché il mio pessimismo è soltanto quello della intelligenza, mai quello della volontà. Quanto più l’intelligenza si serve del pessimismo per scavare fino in fondo le verità della vita, tanto più la volontà si arma, a mio avviso di carica ottimistica, rivoluzionaria.

Esasperazione dei conflitti? Ma questo è il compito dell’arte. L’essenziale è che i conflitti siano reali. Io credo perciò di aver dato con Rocco non un quadro di parte, ma un quadro sul quale tutti, purché animati di buona volontà possono convenire: nel condannare ciò che merita condanna e nell’assumere quelle speranze, quelle aspirazioni cui nessun uomo libero può davvero rifiutarsi.

Luchino Visconti
(L’Unità, 18 ottobre 1960)