Ottobre 1960

Non si è interamente diradata la nebbia del misticismo se ancora oggi buona parte della critica, per spiegare Rocco, il protagonista dell’ultimo film di Visconti, non ha trovato di meglio che definirlo un “santo”. I critici più aggiornati per dimostrare di essere al passo con la filosofia moderna della storia hanno anche scoperto che il film è “un dramma dell’emigrazione interna”, vale a dire un aspetto dell’opposizione città-campagna; ma volendo stabilire fino a che punto Visconti abbia saputo superare i limiti imposti dai termini economici e sociali del fenomeno e che misura i protagonisti della vicenda (riducibile, nel suo schema, ad un fatto di cronaca), rappresentino l’aspetto umano del fenomeno, occorre sapere che l’emigrazione interna, oggi in Italia, ripropone, in una forma clamorosa, il conflitto fra due civiltà: quella agraria e quella industriale, un conflitto che mette in una luce chiara, fredda e cruda la decomposizione e il crollo di alcuni principi morali e di alcuni istituti sociali su cui, oltre i mezzi di produzione, la borghesia fondava la sua egemonia.

Perché Rocco è tanto ricco di bontà, tanto generoso, e, in un mondo in cui la idea astratta dell’ingiustizia (sapessi com’è la vita!) nasconde ogni concreta responsabilità, si sente colpevole di tutto? Perché Rocco si affanna, insieme con la madre, a salvare l’unità della famiglia ed è ancora capace di sentimenti sani, profondi, forti, virili?

La struttura agraria pone al centro della economia il nucleo familiare; le braccia del contadino sono l’unica fonte di guadagno e la possibilità di esistere e resistere, anche di migliorare la propria condizione di vita, si realizza nel moltiplicarsi delle braccia, cioè nell’aumento della capacità produttiva della famiglia i cui membri non possono da soli raggiungere l’autonomia. Questi strettissimi legami di interessi che sono alla base della famiglia contadina hanno generato nel corso dei secoli una morale adeguata, sentimenti particolari, una concezione della vita ecc., tutto ciò che siamo abituati a definire “civiltà contadina” molti valori che un tempo, al suo nascere, furono anche della “civiltà borghese”, poiché questi valori di civiltà borghese li aveva ereditati dalla civiltà feudale che era una civiltà agraria.

Il borghese figlio della macchina, della divisione del lavoro, realizza l’aspirazione dell’autonomia economica individuale, autonomia che comporta la negazione della solidarietà, sviluppa l’egoismo, distrugge l’unità della famiglia. Questa autonomia  viene a sua volta soppressa dalla nuova organizzazione (monopolistica) della società moderna, una organizzazione gerarchica che sostituisce al “pater familias” il padrone della fabbrica o la società anonima.

La perfetta saldatura, nel mondo agrario, fra struttura e sovrastruttura, fa sì che la morale non contrasti con l’azione, che la cultura sia unitaria, che non vi sia discrepanza fra pubblico e privato e i sentimenti e le passioni coincidono sempre con gli interessi, sono forti ed estremi, capaci ancora di alimentare sacrifici sublimi e profonde aberrazioni, amore possente e odio totale.

Rocco è un rappresentante tipico della civiltà contadina. Egli non può accettare, senza corrompersi, nemmeno la “solidarietà operaia” già minata dal riformismo politico e sindacale, poiché il contadino non fa alcuna distinzione fra obiettivo immediato e fine ultimo, fra cosa simboleggiata e simbolo, fra giustizia e rivoluzione, presente e avvenire. Impegnare in comune la vita, anche senza speranza individuale, cioè al di sopra del proprio interesse, è per il contadino l’unica forma possibile di solidarietà. In questo senso, cristiano medioevale e realista moderno, il contadino rifiuta istintivamente anche il concetto di solidarietà del socialismo, così com’è oggi concepito (fiducia nel partito) e tende a restare  aggrappato al mito di una impossibile universale fratellanza. Questo mito è alle spalle di Rocco, è radicato nella sua terra lontana, è fatto di anni di vergogna e di illusioni, del dolore del passato e del presente, gonfio di tradimenti e di angosce, di un bisogno collettivo di bontà e di giustizia che non può essere appagato solo in parte. Per Rocco l’amore non è soltanto un sentimento integro, schietto, profondo, è la fraternità del pane che si mangia, nel vino che si beve, è un dividere timore e sofferenze, è realtà e sogno dell’esistenza quotidiana.

Come possa essere dolorosa e drammatica la rottura del mondo contadino quando entra in contatto (e si scontra) con la civiltà industriale che ha capovolto deformato e deriso i valori della civiltà contadina è, a nostro avviso, rappresentato nel film di Visconti con una capacità e lucidità di analisi che pochi registi posseggono.
Giuseppe Ferrara