Roma, agosto 1965

« Davvero? » chiede Visconti con quel tanto di sorpresa che gli consente la conversazione ormai avviata su un tono da salotto. Davvero. Ormai tutti hanno capito che, se Fellini va a Venezia con Giulietta (ma è proprio sicuro?), se Visconti espone Vaghe stelle dell’Orsa…, è in virtù di un gentlemen agreement. Io sto fuori concorso, tu rappresenti l’Italia ufficialmente, così la Mostra reciterà il suo mea culpa e, dopo aver premiato tanti nomi scritti sulla sabbia, si ricorderà anche di Visconti. Con un « a buon rendere » per Fellini che, insieme con lui, divide il primato delle bocciature al festival e questa volta gli ha ceduto il passo in omaggio a un diritto di primogenitura nella storia del cinema italiano.

« Strano » commenta Visconti e intorno ha ancora le immagini del suo film, appena proiettato in visione privata, ed è come se ognuna appartenesse a un universo di cenere, di lava. « Strano, perché io a Venezia avrei rinunciato volentieri e ho detto sì solo perché capisco gli interessi della produzione e della casa che distribuisce il film. Allora però, visto che a questo giudizio debbo comunque espormi, mi attira di più essere in lizza con Fellini che non… ». Ripete due volte: « Che non… » e sembra cercare nella memoria chi sarà a sbarrargli il passo al Lido, perché va bene che anche di questo tutti sono certi: il Leone gli è destinato a priori, ma da parte sua si concede qualche dubbio. E anche un minimo di indifferenza.

Più volte gli hanno già tolto di mano all’ultimo minuto quanto era suo: non sarebbe assurdo dimenticare proprio adesso questa serie di esperienze e credere in un successo che poi, siamo sinceri, cosa aggiungerebbe a lui, alla sua personalità, alla sua arte? Il Leone in sé lo attrae, dunque, mediocremente e, se mai lo desidera, è per il residuo legame con Vaghe stelle, germinato durante un viaggio mentre la macchina correva e Volterra al tramonto gli appariva « nel suo aspetto chiuso, condannato, di città che dà una sensazione di maledetto ». Magari finisce che il film lo premiano sul serio, ma il premio « intende consacrare — conclude Visconti, e la sua voce ricalca quella ufficiale dei presentatori di Venezia — soprattutto un complesso di opere, la carriera di un regista ».

Chiaro che di questa etichetta da gloria patria ormai cristallizzata non sa che farsene e a maggior ragione in quanto Vaghe stelle dell’Orsa… presenta per alcuni aspetti un Visconti nuovo, restio a prender posizione in una vicenda dove, a differenza dalle altre, la speranza è esclusa. E anche un sia pur indiretto giudizio morale dell’autore perché, dice Visconti, « mi sembrava che una situazione così difficile e violenta non avesse bisogno, né offrisse la possibilità di un intervento. I personaggi li ho sviluppati alla maniera di chi osserva mostruosi insetti agire al di là di una lente di ingrandimento e intanto loro continuano tenacemente a perseguire un fine voluto, ma insieme imposto dal destino ».

(…)

« Di loro — riflette Visconti — alla fine restano tre lettere, un estremo sforzo di farsi intendere dai vivi, inutile in questa storia di morti, calcinati dalle loro passioni, che pretendevano d’infrangere l’unico tabù del nostro mondo, in cui tutto è ormai ammesso ». Uno svelto riepilogo dell’accoglienza che la Mostra del cinema ha sistematicamente riservato ai film di Visconti; l’immagine del pubblico di Venezia — una platea di gioielli, abiti da sera e convenzioni ben radicate nella pelle; poi l’idea di questo tabù che dallo schermo gli verrà buttato in faccia per scuoterlo dalle sue comode certezze.

« Le mie serate sono sempre calde » osserva il regista, ma è chiaro che la battaglia quasi certa anche quest’anno la giudica un rispetto delle tradizioni da parte dei suoi avversari, più che l’effetto di una dose-urto di sensazioni, implicite nel tema di Vaghe stelle: « Se in parte — continua Visconti, tornando a una frase detta in precedenza — questo film, portato avanti scarnamente, senza un mio intervento, si differenza dagli altri, è anche vero che ancora una volta ho ripreso il motivo di un amore difficile, della sconfitta quale conclusione inevitabile. Da Senso, dove c’era l’abbandono della contessa Serpieri da parte dell’amante, a Rocco, con l’eredità del Sud che obbligava Simone all’omicidio, è tutta una galleria di vinti che, la loro, è una situazione forzata fino alle ultime conseguenze »
(dall’intervista di Floriana Maudente, Settimana Incom Illustrata)