
Roma, settembre 1950
In Italia, una vera e propria industria del cinema non c’è. Nel cinema, italiano e non italiano, una vera e propria possibilità di sistemazione estetica forse ancora non c’è. Ma in Italia ci sono — vecchia storia — dei temperamenti. Nel cinema, italiano e non italiano, c’è già, forse, materia sufficiente per una “histoire naturelle des esprits”, certo più limitata ma sul tipo di quella che un critico di genio, Sainte-Beuve, si prefiggeva.
Insomma, nel campo del cinema — arte legata come nessun’altra alla collaborazione creativa — ancor prima che un’estetica, ci si imbatte in un’alchimia. Temperamenti, incontri, scontri. Mischiate insieme, e state a vedere cosa ne esce. Senza contare che certe esperienze, nel cinema italiano, si fanno meglio e più volentieri che altrove: costituiscono oltretutto il nostro lusso. Anche qui, mancando di pane, ci nutriamo di brioches. Facilitati e perfino costretti a ciò dalla mancanza di un’industria seria e continua. E proprio perché da noi, più e meglio che altrove, il cinema tende a rimanere allo stato brado, allo stato d’occasione.
Un’eccellente occasione, della quale val la pena di parlare per primi, è l’incontro, non ancora annunziato ufficialmente, fra due autentici temperamenti del nostro cinema: nientemeno Luchino Visconti, e, nientemeno, Anna Magnani.
Un temperamento, l’uno, ancor prima che un regista dotatissimo; un temperamento, l’altra, ancor prima che una grande attrice. Categorici terribilissimi e magari cannibaleschi tutti e due, essi fin qui hanno vagato nell’orticello del cinema italiano, contribuendo ad allargarne i limiti, ciascuno per proprio conto, ma certo si guatavano alla lontana. Ora eccoli uno di fronte all’altro. Fossero stati due attori, o due registi, non c’è dubbio che si sarebbero sbranati: non sarebbero rimaste nemmeno le code. Ma si dà il caso che siano invece un regista e un’attrice. Ed eccoli, amici, uno nelle braccia dell’altro. Ecco l’incontro nascere — al cinema tutto è possibile! — sotto il segno dell’artistico idillio. E, in mezzo ai due, muto e impassibile testimone, un altro campione dell’esprit fort: Prosper Mérimée. In mezzo ai due, diciamo, il soggettista del film che essi gireranno insieme, l’autore appunto de La carrozza del SS. Sacramento: uno scrittore francese, che ci ha lasciato or’è quasi un secolo, ma in realtà, come capita spesso ai classici quando c’è qualcuno che li tiri giù dagli scaffali, più vivo dei vivi, e soprattutto più moderno di moltissimi moderni.
Bisogna dire che con Mérimée ambedue i nostri amici, l’attrice e il regista, hanno dei precedenti. In certo senso, dei conti da regolare. Conti aperti, separatamente, in teatro. E che essi si apprestano ora a regolare, insieme, in cinematografo.
Per capire, torniamo un momento indietro nelle cronache. Il lettore provveduto (tutti i lettori sono provveduti) non ha dimenticato gli anni di questo dopoguerra. Anni penosi sotto molti aspetti: ma, in teatro e per il teatro, una volta tanto fortunati. Si son visti in quegli anni, sui nostri palcoscenici, spettacoli di un livello inusitato, si è assistito ad una fervida ripresa di iniziative, che allora sembrava dovesse preludere a grandi cose e invece naufragò nello squallore di oggi.
In quell’occasione, Luchino Visconti, che il pubblico conosceva soltanto per il regista di Ossessione, film più discusso che visto, entrò clamorosamente nell’agone teatrale. E la Magnani, non assurta ancora a fama mondiale grazie a Roma città aperta, nell’agone teatrale aveva fatto ritorno.
Ora, se è vero che tutti i lettori sono provveduti, tutti ricorderanno come l’opera scelta per quel ritorno fosse proprio la più nota, se non la più letta, dello scrittore francese, vale a dire Carmen. Ma perché dunque, il conto rimase aperto? Perché quella recita, che si annunziava come la più adatta per la Magnani e anzi ritagliata su misura sua, non ebbe — oggi, sul metro delle affermazioni da lei conseguite nel frattempo, si può dire — non ebbe che un mediocre successo, di pubblico e di critica. Non per colpa dell’attrice — che aveva dato alla famosa zingara sangue e nervi più trasteverini che andalusi, è vero, ma in ogni modo risonanze convincenti e un suo personale sapore — ma per il complesso che l’attorniava, lo sbrigativo canovaccio nel quale lo stupendo racconto era stato ridotto, e la regia non certo forte e serrata come avrebbe dovuto.
In quanto all’avventura, o disavventura, di Visconti, essa fu di indole diversa. Riguardava esattamente la commedia che ora egli si prepara a tradurre cinematograficamente, La carrozza del SS. Sacramento. Teatro Eliseo, 1945: è la storia di una regìa rimasta incompiuta. Ma non sapremmo darvene esattamente le ragioni, se non entrando nel pettegolezzo d’ambiente. Non essendo questo pane per i nostri denti, basterà sapere che dopo un certo numero di prove i rapporti, in compagnia, si guastarono. Sorsero divergenze di vedute fra il regista e l’attrice (Andreina Pagnani), che pure avevano appena conseguito insieme, nella stagione e sullo stesso palcoscenico, il clamoroso successo dei Parenti terribili. Fatto sta che Visconti abbandonò il teatro di via Nazionale, e la regia venne portata a termine da Orazio Costa. Tutto qui.
Ma perché, dovendo dar conto di un film nuovo, e anzi nuovissimo, andare a risuscitare cronache vecchie, se non ormai vecchissime? Ma perché si dà, nelle cronache del teatro e del cinema, questo caso singolare: che ora si mettono insieme, in un film tratto da un’opera di Mérimée, quell’attrice che proprio recitando questo autore si vide malservita dal suo regista d’allora; e un regista che, proprio allestendo l’opera di questo autore che ora si appresta a tradurre cinematograficamente, si ritenne malservito dalla sua attrice di allora!
Si tratterà, naturalmente, di coincidenze casuali. Ma le cronache del teatro e del cinema — nonché la materia sulla quale noi cronisti usiamo sempre speculare — son fatte anche di queste coincidenze, curiose, e qualche volta sintomatiche. Come non ricordarsi di esse, per esempio, allorché vedremo Visconti e la Magnani, Anna e Luchino, giunto che sia dicembre e magari Natale, avviarsi per i viali di Cinecittà, e dare il primo colpo di manovella — uno al di qua dalla macchina da presa, l’altro al di là — alla storia del loro amico comune, il sunnominato Mérimée?
Poiché per dicembre è fissato l’inizio di lavorazione de La carrozza del SS. Sacramento, a dicembre, già da un mese Cinecittà si sarà liberata dalla pletorica organizzazione del Quo Vadis?, e vedremo allora alle tuniche romane sostituirsi, in minor copia ma con ben diverso buon gusto ed eleganza i bei costumi del ‘700 peruviano disegnati da Mario Chiari e dalla De Matteis, scenografi e costumisti che si sa cosa valgono; ci troveremo non più nella Corte di Nerone ma in quella diversamente dissoluta, del Viceré spagnolo Don Andrés de Ribera; vedremo dar scandalo alla bigotteria del tempo la splendida Camilla Perichole, commediante esperta in palcoscenico, ma ancor più nella vita, e femmina tanto dotata quanto prodiga delle sue doti. Minacciata d’espulsione, costei troverà, nella senile passione del terribile Viceré il muro di burro attraverso il quale far breccia contro gli ipocriti concittadini che le vogliono male.
La sceneggiatura che Visconti, insieme con Pietrangeli, Tellini, Avanzo, sta preparando, se necessariamente allarga gli schemi della commedia, lo fa ubbidendo alle sollecitazioni che questa stessa stimola e suggerisce. L’essenziale è che nella versione cinematografica sia trasposto, in valori espressivi equivalenti, lo spirito dell’opera, e dell’autore, che è sul piano di un altissimo gusto, e sul tono d’un gioco tanto scoperto come misurato. Se Visconti, se la Magnani, e naturalmente i loro collaboratori riusciranno a darcene il senso, non sarà soltanto l’aristocratica anima di Mérimée ad esserne placata. Saremo anche noi a ringraziarli. Perché significherà che la fantasia, l’umore, e l’intelligenza che sente sé stessa, avranno nuovamente battuto alla porta del cinema italiano. E che il neorealismo ha fatto il suo tempo.
Franco Rispoli