Giorgio De Lullo, Marcello Mastroianni, Rina Morelli e Paolo Stoppa in Morte di un commesso viaggiatore, Prima rappresentazione in Italia: Teatro Eliseo, Roma, 10 febbraio 1951, regia di Luchino Visconti.
Roma, febbraio 1951
Una commedia bellissima, una regia perfetta, una interpretazione stupenda. Rare volte accade di vedere uno spettacolo teatrale così ben riuscito.
Con la tecnica fantastica delle simultaneità e sovrapposizioni che la pittura medioevale ha usato per prima, specie nei quadri riassuntivi delle città, (p. e. Roma di Cirillo d’Ancona) tecnica rappresentativa ripresa dai moderni (p. e. la Città di Prato di Ardengo Soffici 1912), Arthur Miller ha presentato, in storica unica, una serie di quelle che Marinetti chiamava sintesi incatenate e che io ho rappresentato al Teatro degli Indipendenti tra il 1922 e il 1930. Questo genere di costruzione, accettato anche dagli Imaginisti, potenzia liricamente la espressività teatrale. Oggi lo si riconosce perché quella tecnica si presenta in forma matura, e perché il pubblico — evoluto dal cinema — riesce ad accettarla, dopo una educazione di trenta anni; ma noi da giovani, sapevamo bene che le sintesi e le simultaneità possono dilatare il mondo del teatro esaltandolo liricamente. Prima di Marinetti un quasi timido gioco scenico di sintesi soltanto parallele, era stato usato da Schnitzler nel Girotondo (Reigen), da me rappresentato nel 1926 ma scritto tanti anni prima. Assai più avanzato di Schnitzler fu il Manifesto Futurista del Teatro (1915) che puntava sulle compenetrazioni fondamento di questo Commesso Viaggiatore.
Ci troviamo davanti alla ennesima realizzazione americana delle idee europee d’avanguardia ben digerite, rivissute, perfezionate. (…)
Luchino Visconti ha una razza naturale di regista potente, ormai raffinata, sicura, e matricolata, che fa piacere vedere in funzione.
Era risolutamente necessario che la scenografia corrispondesse alla tecnica usata dall’autore nella costruzione del pezzo letterario. Il protagonista — surrealissimo — è preso da visioni, assediato da ricordi, esaltato da suggestioni e da sogni e dall’anelito d’aver il consenso morale, di un suo fratello nella vita che è stato ardito e fortunato: “un cannone” dice la eccellente traduzione di Gerardo Guerrieri.
Il regista non poteva procedere che col metodo dei “luoghi deputati” tante volte, per ragioni di necessità, riesumati da noi nei lavori di Jarry, Marinetti, Apollinaire, per nominare soltanto i precursori. Con le sue “dissolvenze”, persino il cinema è venuto dopo queste risoluzioni; e qui dovrei rifarmi alla storia del cinema d’avanguardia europeo che si inizia teoricamente nel 1913 ma nella pratica nel 1916, e comincia in Italia. In questo lavoro di Miller, durante lo svolgimento dei fatti reali agisce una concomitante realtà poetica, come in certi lavori di Pirandello, di Rosso, di Bonelli e di Salacrou che nomino osservando la precedenza storica. E tale doppia esistenza del protagonista, che ha dato forza all’attore. Senza dire che Paolo Stoppa nacque drammatico. Le occasioni della carriera lo costrinsero a fare persino il mimo, ma oggi, che è riuscito ad afferrare il coltello per il manico, egli impone la propria natura: trova se stesso. A me, però, che nel 1932 gli feci recitare uno dei più forti drammi marini di O’Neill, nello spettacolo al Valle che ne fondeva quattro col titolo I Marinai del Glencairn, Stoppa non è nuovo come attore tragico. Scusi il lettore se, ogni tanto, io ricordo cose mie: è che i miei amici ed io abbiamo fatto tanto e tanto lavoro, precorrendo fatti e cose. (…) Ora io credo che questo Commesso viaggiatore sia il capolavoro di Paolo nella sua maturità di attore. Quasi matto epilettico in due terzi dell’opera, preso dal delirio dei suoi aneliti, febbricitante d’un’ansia di inappagato, ansimante dietro il bisogno di soddisfazioni in un mondo arido e feroce, Willy Loman ha pur dato a Paolo Stoppa scene di nervi stesi, acquetatisi nel miraggio seducente delle illusioni. Stoppa aveva qui un viso radioso e un linguaggio innocente che illuminava la situazione del personaggio meglio di ogni discorso. La mimica di Stoppa è arrivata molto lontano, anche per merito delle esercitazioni cinematografiche.
Rina Morelli ci ha stretto il cuore con mezzi di sincerità, posseduti soltanto dal vero artista. Essa è tutt’anima. Una creatura poetica vivente meglio che un’attrice: ciò che una interprete dovrebbe riuscire ad essere sempre. Con una dizione fuori regola, perché giocata sullo sfumare della parola, abbandonandola sull’accento essa riesce a far poesia personale e trova un carattere proprio. Non consiglierei a nessuno un simile metodo, ma trovo che la Morelli sa applicarlo con molta abilità, per virtù di un sensibile criterio personale. De Lullo ha dato, a sua volta, una superba dimostrazione di potenza nervosa, magnifica per scrupolo di impegno, e persino eccessiva in certe punte dove “sforava” oltre i mezzi vocali. Non sapevo che De Lullo potesse essere così virile e vigoroso. Lo conoscevo delicato e finemente sensibile; stavolta lo trovo completo: un bell’attore davvero. Ottimo, specialmente nel quadro finale Gaetano Verna, che possiede sempre la placida e persuasiva parola che me lo fece prediligere negli anni che recitò con me. Ma bravi tutti, in questo complesso, per merito, oltreché proprio, delle regia ovunque presente e giustamente applaudita.
Per quanto riguarda la scenotecnica, sempre a causa dei precedenti storici su ricordati, la scenografia non è risultata nuova, sebbene rigorosamente corrispondente alla letteratura. Il regista non poteva fare altro che attingere dalla cultura le presenti risoluzioni tecniche, nate già da un “nuovo” letterario precedente, raccolto prima dallo stesso autore. Anche gli schemi architettonici nudi — armature, profili, sagome, che vengan detti — nacquero già per il teatro sintetico futurista e per le sue simultaneità. A me questa tecnica radicale ed elementare, scheletrica, venne ispirata dal codice Terenzio della Vaticana sontuosamente pubblicato in folio con le sue preziose figure dal Cardinale Albani (Roma, 1767). Nel Commesso Viaggiatore si vedono per caso, a destra della scena, porte come quelle del Terenzio Romano. Anche la parte centrale con i due letti su un piano superiore ricorda il Desiderio sotto gli olmi. Le sagome ad angolo dei tetti vengono usate in una scena tanti anni addietro. I grattacieli che vanno all’infinito sono anch’essi trovata vecchia, giunta anche alla rivista. Gli attori che vengono in scena spingendosi i mobili, sono pure usanza nostra di trenta anni fa. Comunque; la concezione di regia scenotecnica è stata intelligente, equilibrata e funzionale. Anche chi reinventa può fare opera d’arte come nel presente caso. Qui, praticamente, era stato già tutto trovato ma s’è ritrovato bene: e le re-invenzioni nel Rinascimento si chiamarono “ritrovati”. Oggi il pubblico accetta senza scherno siffatte risoluzioni. Quando noi le facevamo, per i primi, riscuotevamo dileggio durante un mese. (…)
Il bel lavoro, così ben recitato e inscenato, non aveva bisogno di tirar le chiamate di sipario a due comici per volta (per numerare gli applausi) tanto avrebbe meritato dieci chiamate anche senza il melanconico trucchetto dei coreografi.
Anton Giulio Bragaglia
(film d’oggi)