Roma, febbraio 1947

Noi europei che consideriamo l’arte drammatica come una vera arte, la più alta, forse, e la più completa, non riusciremo a renderci pienamente conto del teatro americano fino a quando seguiteremo a giudicarlo secondo gli insegnamenti di una traduzione fondata su Shakespeare, su Molière, su Goldoni, su Goethe, su Gogol e sugli altri poeti che scrissero per le scene. È un metro, il nostro, troppo assoluto che mal si adatta alle condizioni di un paese il quale non ha avuto, fino al principio di questo secolo, né una letteratura drammatica propria, né, salvo poche eccezioni, una letteratura. Le commedie che laggiù si applaudono ed i libri che si leggono, sono per lo più opere di scarsa originalità e di mediocre rilievo le quali si propongono di intrattenere gradevolmente il pubblico senza altre pretese che quelle di un’abile confezione. Presso a poco come avviene per il cinematografo.

La maggior parte degli americani, da gente pratica quel’è, considera l’arte come un piacevole mezzo di svago: priva di cultura, di fantasia e di senso critico, semplice ed ingenua, si appaga di ciò che la diverte e la sorprende eleggendo i suoi beniamini con fra coloro che noi conosciamo perché si affaticano a dare un’arte degna al loro paese, ma fra chi mette meglio a frutto le risorse del proprio mestiere. È per questo che, facendo di ogni erba un fascio, pongono sullo stesso piano (il piano dei “campioni” dei “money-makers”, di chi guadagna o fa guadagnare maggiormente) Arturo Toscanini e Duke Ellington, Bing Crosby e Beniamino Gigli. È anche per questo che mentre O’Neill viene recitato in piccoli teatri riservati a ristrette élite, le grandi sale di Broadway replicano per anni di seguito le commediole di un Kaufman o di un Lindsay e i drammoni di una Hellman o di un Kirkland. È sempre per questo che la sistemazione della letteratura americana procede in definitiva, sotto l’influenza della critica europea: siamo noi che assegnamo a Faulkner e ad Hemingway (quasi sconosciuti alla media yankee) il posto che meritano, così come ieri lo attribuimmo, dopo averli scoperti, a Poe e a Whitman.

Quando si sarà capito che i quattro quinti delle commedie d’oltreoceano non valgono meglio dei quattro quinti dei film girati ad Hollywood perché sono convenzionate con lo stesso criterio e in vista dello stesso pubblico, non capiterà di vedere eccellenti compagnie impegnarsi a fondo in uno sforzo esemplarmente inutile come quello compiuto dagli attori di Luchino Visconti per mettere in scena La vita col padre. Due mesi di prove, ventitré giorni di riposo e un milione di spese sono, in casi siffatti, un gioco che non vale proprio la candela, un gioco pericoloso che prima o poi si paga. Ma La vita col padre va replicandosi in America da otto anni; dieci attori si sono alternati nella parte del protagonista una grande casa cinematografica ha speso cifre iperboliche per trarne un film. Come resistere a così invitanti lusinghe? Bastava forse leggere il copione con lo stesso spirito col quale si legge normalmente una commedia nostrana; ma chiedere certe cose è chiedere un po’ troppo ai nostri attori.

Autori di questa commediola sono certi Howard Lindsay e Russell Crouse (attore, autore e impresario il primo che viene al teatro di prosa dal cinema muto, dal vaudeville e dai burleschi, e sceneggiatore della Paramount il secondo) i quali, avendo creduto di trovare gli elementi per uno spettacolo nella serie di ameni capitoletti con cui il New Yorker aveva rievocato la vita di una famiglia americana alla fine del secolo scorso, si misero al lavoro nel 1939 e in poche settimane composero i sei quadri che raccontano le ripicche e le baruffe di casa Day. Rappresentata quell’anno stesso la commedia conobbe un successo senza precedenti.

La vita col padre non si potrebbe, a rigore, neppur chiamare commedia, tanta è la lievità della sua vicenda. (…)

Senza un principio e senza una fine (i quadri potrebbero essere indifferentemente molti di più o molti di meno), la commedia trova nella sua estrema tenuità una certa grazia che disarma gli spettatori e li induce all’indulgenza; ma niente di più. E allora vien fatto da domandarsi la ragione per la quale sia stata scelta nel nutrito e ambizioso elenco di allettanti primizie che la compagnia aveva promesso al suo inizio. Non è la prima volta che si assiste ad una simile capitolazione di programma e verrebbe voglia di pensare non ad un caso, ma ad un sistema: ad una mancanza di coerenza o di fiato. Qualcosa di simile, del resto, a quanto si nota nella carriera direttoriale del Visconti il quale, inattaccabile nella messa in scena di commedie di poco conto, perde la sicurezza e la padronanza di sé, sgarra e si fa gridare la croce addosso non appena si cimenta con autori del calibro di Dostoievschi o con opere del valore del Matrimonio di Figaro.

Questa volta, in verità, non è a lui che va il merito dell’ammirevole spettacolo e dell’ammirevole recitazione; ma a Gerardo Guerrieri, non ostante fosse facile riconoscere nell’insieme, il suo gusto di supervisore. Rina Morelli è stata una madre e una moglie leggiadramente sventata e sventatamente tirannica. Paolo Stoppa era il padre, burberamente arrendevole e gustosamente impetuoso nella elementare bonomia del personaggio. Una vivace, impagabile e caro quartetto di ragazzi hanno composto il De Lullo, l’Interlenghi, il Rissone e lo Stagni. Eccellenti la delicata Lotti, l’esuberante Polverosi, la brava Marga Cella e il Mondolfo. Bellissimi lo scenario ed i costumi di Maria De Matteis.

Ermanno Contini