Una recente polemica sui rapporti tra letteratura e cinematografo mi ha trovato spontaneamente nella schiera di coloro che hanno fede nella ricchezza e nella validità, per il cinema, di una ispirazione « letteraria ». Confesso che avendo intenzione di iniziare una attività cinematografica, una delle maggiori difficoltà che mi sembrano fare ostacolo al mio desiderio e alla mia ambizione di intendere il film solamente come un’opera di poesia, sia la considerazione della banalità e, mi si passi il termine, della miseria che sono tanto spesso alla base della comune soggettistica.

Sembrerà magari ovvio, ma mi son chiesto più volte perché, mentre esiste una solida tradizione letteraria la quale in cento diverse forme di romanzo e di racconto ha realizzato nella fantasia tanta schietta e pura « verità » della vita umana, il cinema, che nella sua accezione più esteriore di questa vita parrebbe dover essere addirittura il documentatore, si compiaccia di avvezzare il pubblico al gusto del piccolo intrigo, del retorico melodramma dove una meccanica coerenza garantisce oramai lo spettatore anche dal rischio dell’estro e dell’invenzione. In una tale situazione viene naturale, per chi crede sinceramente nel cinematografo, di volgere gli occhi con nostalgia alle grandi costruzioni narrative dei classici del romanzo europeo e di considerarli la fonte oggi forse più vera d’ispirazione. È bene avere il coraggio di dire più vera, anche se taluno taccerà questa nostra affermazione di impotenza o almeno di scarsa purezza « cinematografica ».

Con la testa piena di questi pensieri, girando un giorno per le vie di Catania e percorrendo la Piana di Caltagirone in una mattinata sciroccosa, m’innamorai di Giovanni Verga.

A me, lettore lombardo, abituato per tradizionale consuetudine al limpido rigore della fantasia manzoniana, il mondo primitivo e gigantesco dei pescatori di Aci Trezza e dei pastori di Marineo era sempre apparso sollevato in un tono immaginoso e violento di epopea: ai miei occhi lombardi, pur contenti del cielo della mia terra che è « così bello quand’è bello », la Sicilia di Verga era apparsa davvero l’isola di Ulisse, un’isola di avventure e di fervide passioni, situata immobile e fiera contro i marosi del mare Jonio.

Pensai così ad un film sui Malavoglia. Da quando ho deciso di non scartare questo pensiero come il frutto improvviso di una commozione solitaria, ma di cercare in tutti i modi di realizzarlo, gli intimi dubbi, i suggerimenti della prudenza, il conto delle difficoltà hanno sempre ceduto dinnanzi all’entusiasmo di poter dare una realtà visiva e plastica a quelle figure eroiche che hanno del simbolo tutta la forza allusiva e segreta senza averne l’astratta e rigida freddezza. Poi, mi ha confortato il pensiero che anche al lettore comune, anche ad un primo contatto superficiale, la potenza e la suggestione del romanzo verghiano appaiono tutte appoggiate sul suo intimo e musicale ritmo; e che la chiave di una realizzazione cinematografica dei Malavoglia è forse tutta qui, cioè nel tentare di risentire e di cogliere la magia di quel ritmo, di quella vaga bramosia dell’ignoto, di quell’accorgersi che non si sta bene o che si potrebbe star meglio, che è la sostanza poetica di quel giuoco di destini che si incrociano senza incontrarsi mai, dalla tragica beffa dei lupini marci all’amore senza speranza di comare Mena, alla morte senza giustizia di Luca, all’ultimo disperato abbandono di ’Ntoni.

Un ritmo che dà il tono religioso e fatale dell’antica tragedia a questa umile vicenda della vita d’ogni giorno, a questa storia fatta apparentemente di scarti, di rifiuti, di cose senza importanza, a questo brano di « cronaca » paesana, incorniciato fra il rumore monotono delle onde che si abbattono sui Faraglioni e il canto incosciente e beato di Rocco Spatu che è sempre il primo ad incominciare la sua giornata perché è l’unico ad aver carpito il segreto di non pagare in sofferenze, in lagrime e sudore l’esistenza che gli è stata assegnata dal destino.

Non sembri strano che, parlando di una eventuale realizzazione cinematografica, io insista tanto su elementi sonori quali il fragore del mare, il suono della voce di Rocco Spatu, o l’eco del rumore del carro di compare Alfio che non si ferma mai: perché voglio subito avvertire che se un giorno avrò la fortuna e la forza di realizzare il film sognato sui Malavoglia, la giustificazione più valida per il mio tentativo sarà certo l’illusione che in un’ora lontana toccò il mio animo dandomi la convinzione che per tutti gli spettatori come per me stesso il solo suono di quei nomi — padron ’Ntoni Malavoglia, Bastianazzo, la Longa, Sant’Agata, « La Provvidenza » — e di quei luoghi — Aci Trezza, il Capo dei Mulini, il Rotolo, la Sciara — servirà per spalancare uno scenario favoloso e magico dove le parole e i gesti dovranno avere il religioso rilievo delle cose essenziali alla nostra umana carità.

Luchino Visconti

Milano, 28 febbraio 1942