ROMA, 21 dicembre 1952. Potremmo dire, ormai, che Luchino Visconti si è assunto il compito di una revisione di autori e di testi che una critica antistorica, ma amplissima e ufficiale (se di critica ufficiale, ancora una volta, si può parlare), ha situati entro falsi confini, se non per difetto di cultura per vizio nell’osservazione. Sono di ieri le accese polemiche suscitate, prima a Venezia poi a Roma, dalla sua edizione della « Locandiera »; oggi, Visconti sposta su Cechov e sulle « Tre sorelle » le punte acute della sua dimostrazione, e per certificare aggredisce, per scarnire spoglia.

La sua « Locandiera », se non poteva rivelare Goldoni, già tutto rivelatissimo per sé, indusse tuttavia molta gente — e molta che era anche pronta a giurare su una acquisizione già scontata o perfino scaduta — a compiere un esame di coscienza, ovvero a rivedere e a rileggere, a riscoprire, a collocare di nuovo: sicché Goldoni, finalmente, e non solo per l’annunciata raccolta curata da Vittorini (editore Einaudi), è tornato come esigente presenza negli elzeviri e nelle conversazioni. In sostanza, pure attraverso qualche cedimento dovuto all’interpretazione di un paio d’attori (parlo dello spettacolo veneziano), difetto trascurabile nel ben altro impegno di tutta la rappresentazione, la « Locandiera » narrata da Visconti restituiva il commediografo veneziano alla chiarezza della sua orditura e del suo significato, ai suoi margini storici, a quella garbatissima ma ignuda sincerità che me fa il più anti-accademico — forse — dei nostri autori, al quale per ironia è toccato quasi sempre il destino di accademici depositi e di accademiche sovrastrutture.

Attenta devozione

A Cechov, so che Visconti pensava da anni: un’incontro, so, di effettivo amore, di avvertitissima devozione. E il rinvio è stato dovuto, fra l’altro, proprio a questa devozione, che non ammetteva e non poteva ammettere misure scarse e imprecise, cioè una distribuzione di interpreti e di collaboratori che non fosse estremamente puntuale a una determinata condotta. E sì che, nel frattempo, Visconti ha affrontato Shakespeare (per non citare altro). Per Cechov, sotto molti aspetti, la difficoltà era maggiore: ma non lo era tanto per gli ovvii’ argomenti di clima, e quindi di ritmo di atteggiamento di accento, cui molti sì riferiscono parlando dello scrittore russo, quanto proprio per questo intento di rendere a Cechov la sua limpida verginità di contenuti, libera da ogni agglomerato che la tradisse, da quei fossili che vi si sono aggiunti nel mezzo secolo e che hanno finito per disperderne la voce o esasperarla, insomma per travisarlo.

Una grossa battaglia

Bisogna combattere una grossa battaglia, forse la maggiore tra quelle combattute dal regista finora. I fumi entro i quali il teatro e tutta la letteratura di Cechov si sono. dolcificati — è onesto riconoscere — non sono casuali: non sono neanche un prodotto tendenzioso, credo, ma costituiscono la conseguenza del contatto fra il più sensibile dei grandi scrittori moderni e tutto un periodo di derivazioni romantiche intraviste alla lente borghese-burocratica. Perciò occorreva ricostruire, scrutare prima in trasparenza — snudare, appunto — e poi restituire il loro scatto a quelle immagini: far sì che in Cechov — è particolarmente in queste « Tre sorelle » — ritornasse un autenticità quasi smarrita, che è fatta di una tonda e reale vita di creature, nel loro spazio, nel loro tempo, nella loro follia, (o incoscienza), in uno sperduto ragionare.

Perchè fra i diluiti drammi di queste figure si agita una terribile consistenza, che al tempo stesso in cui rovina giunge a maturazione. E, di fronte a questo, la stessa novità tecnica del palcoscenico cecoviano (l’azione decentrata, il centrifugo diffondersi delle vicende, su cui già molto si è insistito, e giustamente) cede al senso di una vicenda nella quale questi personaggi immobili, che si lasciano vivere in una anarchia di drammi e di parole e di silenzi, diventano i protagonisti di una preparazione alla « tempesta » che incombe. « Su noi tutti incombe qualche cosa di formidabile; si prepara una fiera e salutare tempesta che avanza. è già vicina e presto spazzerà via la pigrizia, l’indifferenza, questa stupida prevenzione contro il lavoro, la putrida noia », come dice qui il tenente barone: Tusenbach în una battuta fra le più note.

Ed è compito facile riportare altri passi delle « Tre sorelle »: « L’uomo deve lavorare, sudare sul suo lavoro: chiunque egli sia; in questo solo si nasconde il senso e lo scopo della vita, ecco la vera felicità », insiste Irina, la minore delle tre donne; e il comandante della batteria, colonnello Vierscinin: « Fra due, trecento, mille anni — la data precisa non importa — comincerà una vita nuova, felice. Noi, certo, non parteciperemo a questa vita, ma noi ora viviamo per essa, lavoriamo, soffriamo per prepararla »; e Olga, Oliuska, un’altra sorella, professoressa al ginnasio: « Le mostre sofferenze sì trasforemeranno in gioia per coloro che verranno dopo di noi ». Ma mi sembra che il catalogare non offra che um giudizio approssimativo del testo, quasi, che esso si esaurisse in un programmatismo. Il programma è ciò che manca, invece; sempre, in Cechov. C’è un rinvio; sempre; un rimandare ad altri uomini che verranno dopo, ad altri anni che verranno, ma non senza speranza, non senza un’attesa di « gioia », per cui val bene la pena di lavorare e di soffrire. Lavorare è forse il solo, grande programma baluginato di questi esseri che una critica facile giudicò soltanto come falliti, come morti viventi. Ci dobbiamo rendere conto che c’è ben di più, in questa assillante « nostalgia del lavoro », in questa scoperta d’un supremo segreto che può essere l’unica, riforma non solo contro secolari ingiustizie, ma anche contro una disperata malinconia.

Delle « Tre sorelle », significativa è anche la data; 1901. Nei quattro atti, consapevoli o no, non si muovono le prime creature di un secolo nuovo, bensì le ultime d’un secolo morto, Degli invalidi, per questo, ma vivissimi per fare da giuntura in un trapasso fra le classi. Una piccola aristocrazia militare decaduta, provinciale, che vive in una cittadina della Russia meridionale, e mugola canzonette, beve, fuma, sorride, ricorda, svanisce. L’arrivo di una nuova guarnigione con i suoi ufficiali può essere un grande avvenimento per le tre sorelle che perdano la giovinezza nella memoria e nel desiderio di Mosca, di quell’infanzia, di quegli alberi fioriti. E un onomastico può essere ragione della grande felicità per un giorno: « E’ come se fossi sul mare, portata da una gioia di vele ». E si può giocare, si possono .sussurrare parole in un dolce francese, si può tentare il latino, avviare dotte discussioni. I duelli, mortali, i tradimenti delle mogli, i debiti, gli incendi, un fratello disgraziato e una cognata possono essere altri episodi di un mondo in cui tutte le cose sembrano ferme, sempre le stesse, mentre anche gli uomini sono oggetto della storia.

Passaggio obbligato

Penultimo fra î grandi drammi cecoviani, « Le tre sorelle » è quello che pronuncia maggiormente il disagio di una situazione e di un’umanità. Molto attenuato qui certo ibsenismo del « Gabbiano », vi sì trova forse più equilibrio che in « Zio Vania », immediatamente precedente, e più fonda espressione che nell’ultimo « Giardino dei ciliegi ». Non privo di zone opache, « Le tre sorelle » si presta tuttavia più degli altri drammi per un compiuto esame del teatro nuovo: di Anton Cechov. Con « Le tre sorelle » appare già chiaro come attraverso questo palcoscenico il teatro moderno dovesse necessariamente passare. Per arrivare a Vildrac e a Garcia Lorca, a O’Neill o a Pirandello, all’ultimo Maeterlinck o perfino a Shaw; ma, per arrivare, anche, a Gorki. Per arrivare fino a Tennessee Williams, scrive Gerardo Guerrieri nella prefazione ai Blues ora editi.

Luchino Visconti ha affrontato la battaglia. Davanti alla sala gremita di uno dei più eleganti teatri di Roma, l’Eliseo, Visconti ha offerto una edizione delle « Tre sorelle » essenziale e lucida nel senso che sopra ho chiarito. La battaglia, dirò subito, non è stata superata sempre, ingaggiata come era su un testo tutto complesso e tutto rarefatto, dove la strada di un lirico realismo si descrive in ombre e in lampi, in cupa ossessione e in stralunata euforia. A. me sembra, tuttavia, che quasi sempre un ritmo teso sia stato mantenuto, che vi siano stati momenti in cui la rappresentazione ha raggiunto un’alta forza emotiva e che l’atmosfera di cui sopra parlavo sia stata per lo più suscitata con misura.

Gli interpreti

Ma, soprattutto, mi pare che Visconti sia riuscito, almeno in gran parte, a riportare a queste creature una più concreta dimensione umana. E qui non possiamo non riconoscere che nel compito è stato grandemente aiutato dal complesso degli attori, dove ad alcuni fra i maggiori interpreti, del nostro odierno teatro di prosa (Rina Morelli, Sarah Ferrati, Benassi, Stoppa, Ruffini) si univa una disciplinata e apprezzabile schiera di giovani. Rina Morelli ha consegnato. alle nostre scene un’altra delle sue indimenticabili eroine: la sua Irina Serghieievna ha confermato una grande natura di attrice. Occorreva una attrice sottilissima per rivivere la struggente solitudine dell’ultima sorella: e Rina Morelli ha vibrato come una allodola nella risata e nel singhiozzo stroncato in gola con rapide parole che le morivano sulle labbra e con piccoli gridi che facevano il vuoto sul palcoscenico. Sarah Ferrati (Mascia) ha affidato la vita del proprio personaggio, necessariamente, a una maggior solidità di accenti che ha reso, con tormentata forza, il buio della sua contraddizione. Ma, accanto a loro, non deve essere dimenticata Elena da Venezia, dolce estenuata Olga. Memo Benassi è stato un Vierscinin corretto, controllato, esattissimo; un prolisso e controverso Andreij. Paolo Stonpa: un Cebutykin sfibrato Sandro Ruffini. Espressivi Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Marcello Mastroianni e, particolarmente, Gianrico Tedeschi. Ma è doveroso ricordare, e non senza una certa commozione, la partecipazione di Aristide e Tullia Baghetti, cordiali interpreti, rispettivamente, del vecchio usciere Ferapont e della vecchia balia Anfissa, semplici figurine. che appartengono non soltanto a Cechov, ma a tutta la letteratura russa.

Meticolose le scene su bozzetti di Franco Zeffirelli (per quanto riproducessero specialmente le ultime modelli universalmente noti); sobriamente adeguati i costumi e le uniformi su figurini di Marcel Escoffier.

Il pubblico, dapprima un po distratto nel difficilissimo inizio, ha poi seguito con attenzione tutto lo spettacolo, festeggiando vivamente alla fine Visconti: e i suoi interpreti. Qualche applauso a scena aperta, come dopo la danza degli ufficiali nel secondo atto.

Sergio Surchi