Milano, Agosto 1960

«Non è assolutamente un film contro la boxe. L’hanno scritto, ma non è vero», mi dice Luchino Visconti, gridando per farsi sentire. Nella palestra della Ignis, al Vigorelli, il solito pubblico eterogeneo e chiassoso segue un incontro fra dilettanti. I due ragazzi, al centro del piccolo ring, si accaniscono come se dallo scontro dipendesse tutta la loro esistenza futura. Quello che porta scritto sulla maglia « Civitanova » sembra avere la meglio su « Novara Boxe », ma lo stringe troppo da vicino. «Allargatevi!», grida l’ex-campione Enzo Fiermonte. Accanto a lui Renato Salvatori, in accappatoio rosso, soffre in attesa che venga il suo turno. Non è una “tranche de vie”, ma l’inquadratura 33 del film Rocco e i suoi fratelli, che Visconti sta girando a Milano. Al colpo di gong i pugili si staccano, la folla ammutolisce. Il regista dice: «Buona, stampare», segno che la scena gli è parsa soddisfacente. Un aiuto strilla: «Silenzio, signori», ma non ce n’è bisogno. Con Visconti anche le comparse sanno che non si scherza. Bisogna fare a modo suo: scatenarsi quando dice «via», tacere appena dice «alt».

In mezzo al ring Visconti si guarda intorno con una smorfia di perplessità. Con la mano destra regge il megafono come uno scettro, un’immagine che ben si accorda con il suo forte naso nobiliare. Tende la sinistra, con l’indice arcuato, a segnare un punto agli aiuti: «Prenez votre place», dice a Claudia Cardinale, offrendole una sedia fra il pubblico con il garbo di un gentiluomo che introduce una signora nel proprio palco alla Scala. « Guardéla no», raccomanda a coloro che le stanno intorno, nel dialetto purissimo che a Milano è parlato ormai solo dai nobili veri e dei portinai. «La guarderete dopo», aggiunge comprensivo. E sorride con malizia, per un attimo, prima di tornare accanto alla macchina da presa.

«Non è neppure un film su Milano — ci assicura, continuando il discorso — Forse si potrebbe definire un film sull’emigrazione meridionale a Milano. Un soggetto appassionante; ci pensavo da anni. Abbiamo scritto e riscritto la sceneggiatura non so quante volte, con Suso Cecchi d’Amico, Festa Campanile, Massimo Franciosa ed Enrico Medioli». La parafrasi da Thomas Mann che si indovina del titolo è volontaria? «Certamente. L’ispirazione della vicenda nasce dalla Bibbia e da Giuseppe e i suoi fratelli di Mann, un libro meraviglioso». Come La terra trema nacque da I Malavoglia di Verga? «Press’a poco. Ho voluto raccontare la vicenda di un uomo che si sacrifica per i suoi fratelli. Rocco Pafundi, il personaggio che nel film è interpretato da Alain Delon, è una moderna incarnazione del biblico Giuseppe». In quale modo si sacrifica Rocco? «Accettando il successo. Per tirar fuori il fratello Simone, cioè Renato Salvatori, da un grosso guaio, firma un contratto di dieci anni con un impresario e diventa un forzato della boxe». Ma che cosa pensa Visconti della boxe: è un fenomeno cattivo in sé? «Non saprei dirlo, in questo momento non mi interessa. La boxe nel film è un mezzo che alcuni fra i fratelli Pafundi scoprono per uscire dalla miseria. Per chi ha muscoli e ha fame è una scorciatoia, la soluzione di tutti i problemi. Naturalmente può rappresentare anche una rovina rapida, completa».

Rocco e i suoi fratelli comincia, si può dire, dove finisce La terra trema. Rosaria Pafundi e i suoi quattro figli abbandonano uno sperduto paese della Lucania, nel quale non riescono a vivere né a morire, e raggiungono a Milano il quinto fratello, Vincenzo. Seguiremo le loro peregrinazioni da un alloggio all’altro, attraverso una serie di lavori occasionali. «I meridionali a Milano trovano generalmente da sistemarsi — dice Visconti —. Tempo tre mesi hanno qualcosa in mano. Milano per l’emigrazione interna rappresenta l’Australia: non è ospitale, forse, ma è generosa. Sarebbe errato generalizzare un problema così grosso: e nel film io cerco appunto di seguire i vari destini, le reazioni e le fortune di ciascun personaggio alle prese con una situazione di questo genere». Sarà dunque un film oggettivato? «Il più possibile. Voglio raccontare una storia, anzi diverse storie. Per questo il film è diviso in capitoli, come un romanzo. Quattro capitoli intitolati a Rocco, Ciro, Vincenzo e Simone Pafundi; un prologo in Lucania (la Madre) e un epilogo, dedicato a Luca Pafundi, il ragazzo. Cioè il Beniamino della situazione».

C’è ancora il tempo di fare quattro chiacchiere, mentre i tecnici sistemano la macchina per l’inquadratura di Claudia Cardinale. «Si immagina perché Rocco porta questo nome? — chiede Visconti — È un omaggio a Rocco Scotellaro, il poeta meridionalista. Ho sempre amato molto la Lucania, ci sono stato varie volte: è la più disgraziata, forse, delle nostre regioni, perciò ho voluto che i Pafundi, venissero di là. Vede: Rocco, come Scotellaro, non sa staccarsi dalla sua terra, sogna di poterla rigenerare con la forza delle braccia. Perciò è particolarmente doloroso il sacrificio che affronta per il fratello Simone: non potrà tornare in Lucania, dovrà affrontare la sua battaglia altrove. Fellini ha raccontato La dolce vita: io tenterò invece di dare l’amara vita della gente come Rocco Pafundi. Non so se mi sono spiegato».

Si è spiegato benissimo. Nei suoi ragionamenti come nelle indicazioni che dà ai collaboratori, Visconti è lucido, esatto fino alla pignoleria. Sfogliando la sceneggiatura leggiamo una battuta della scena finale, quando Ciro dice al ragazzo Luca: «Rocco è un santo. Ma nel mondo in cui viviamo, nella società che gli uomini hanno creato, non c’è posto per uomini come lui. Non credo che tornerà al paese. Anche il nostro paese diventerà una grande città, dove gli uomini impareranno a far valere i loro diritti e a imporre dei doveri. Io non so se un mondo così fatto sia bello, ma è così. Ciro Pafundi è il meridionale che sceglie la soluzione più “milanese”: diventa un operaio dell’Alfa Romeo, attivo e cosciente, ansioso di portarsi al livello dei suoi compagni settentrionali. Simone, invece, finirà in carcere, travolto dalla passione per Annie Girardot, una “ragazza di vita”, e omicida per gelosia. Fra i due opposti destini di Simone e di Ciro sta il significato della vicenda di Rocco e i suoi fratelli».

«Ho dei personaggi molto diversi, dei caratteri differenziati. C’è un’altra forte contrapposizione nel film, tra Vincenzo, il fratello equilibrato e saggio, e la madre, che sarà interpretata da Katina Paxinou. Vincenzo ha capito che la boxe come via d’uscita dalla miseria è un miraggio, può diventare realtà una volta su cento. La madre, un po’ fanatica e sentimentale, spinge invece i figli al ring come se si trattasse d’una prova di virilità». Una madre che vuol rifarsi con i figli delle delusioni sopportate, come la Magnani in Bellissima? «Certamente. Ma il film si concluderà con lo sguardo di Luca, il ragazzo che apre gli occhi sulla vita. Perciò dico che sarà un film oggettivato. A Luca voglio dire: la situazione è questa, l’esistenza non offre strade più comode. La risposta sta in te: in quello che avrai appreso dalla scuola del dolore e della sopportazione, in quello che potrai fare».

A cinquantaquattro anni, Luchino Visconti è oggi uno dei più importanti registi nel mondo. E appena leggermente invecchiato dal giorno in cui lo incontrai per la prima volta alla Mostra di Venezia per la presentazione de La terra trema. Fu allora che Visconti diventò, in una sola sera, l’esponente più combattivo del neorealismo italiano, la bandiera di una scuola. In seguito il suo eclettismo l’ha portato verso esperienze diversissime. Dal neorealismo integrale del film verghiano è passato allo studio psicologico e di costume con Bellissima, al romanzo storico con Senso, alla divagazione neoromantica con Le notti bianche. Rocco e i suoi fratelli potrebbe segnare un ritorno all’ispirazione de La terra trema. C’era una ragione precisa per lei, chiedo al regista, di fare questo film piuttosto che un altro? «Credo di sì — risponde — Sono convinto che la cosiddetta rinascita del cinema italiano sia un fatto autentico, non soltanto una formula giornalistica. Sta a noi lavorare perché non si risolva in un fuoco di paglia. Perciò bisogna misurarsi su temi attualissimi, su vicende che ci toccano da vicino. Non è il momento di scantonare, di guardarsi indietro, di fare i film sull’altro ieri. Dobbiamo lavorare qui e ora su temi che appartengono a questa dimensione».

Ancora una domanda, mentre l’operatore Rotunno finisce di illuminare la scena: pensa che dieci anni fa avrebbe girato Rocco in maniera diversa? «Senza dubbio, penso di aver maturato molte cose in questo periodo. Non parlo dello stile, che è sempre un’incognita. Nessun regista parte con la consapevolezza precisa di quello che sarà il suo film. A un certo punto, nella lavorazione, intervengono sempre dei fatti un po’ misteriosi. Parlo invece di un risveglio d’interessi nuovi. Forse confluenza delle esperienze fatte su piani diversi, in teatro e al cinema. Oggi mi appassiona il problema della scenografia in funzione espressiva, ho chiesto all’architetto Mario Garbuglia parecchie sottolineature di questo tipo. Mi interessa di più l’apporto dell’attore, in Rocco adopero quasi esclusivamente professionisti. Forse, tutto sommato, mi si è risvegliato un interesse per il racconto, quello che mancava un po’ in La terra trema. Ho voglia di raccontare. Ho voglia di spiegarmi attraverso il racconto».

Tullio Kezich