Il più grande spettacolo dell’anno
La bravura con cui il regista Visconti ha messo in scena Tre sorelle di Cecov entusiasma il pubblico romano dell’Eliseo
Roma, dicembre 1952.
Il regista Luchino Visconti, mettendo in scena al teatro Eliseo le Tre sorelle di Anton Pavlovic Cecov, ha creato il più grande spettacolo romano di fine anno. Può sembrare un paradosso; ma in questa colossale macchina costata venti milioni, il testo costituisce, almeno per il pubblico, l’elemento di minor attrattiva. È un testo di altissima poesia; ma dispersivo e triste, emotivamente monotono. Nelle Tre sorelle, come tutti ricordano, non manca il morto: è il barone Nocolaj Lvovic Tusembach. Ma se ne va, anche lui, in punta di piedi tra gli abeti della foresta, facendo il rumore strettamente indispensabile all’esplosione di un colpo di rivoltella. È un morto che non pesa troppo e che, non molto tempo dopo la sua tragica dipartita, si vede riapparire giulivo e sorridente con un gentile inchino agli applausi degli spettatori.
Tre sorelle è un disperato proclama rinunciatario, tutto in sordina, non certo un testo augurale per un buon inizio d’anno. Ma, come dicevamo, il testo nello spettacolo di Luchino Visconti è in certo senso il meno. Ecco intanto una prima attrice, Sarah Ferrati, che dopo una lunga assenza si ripresenta qui a Roma, per la prima volta alla ribalta. Fra la sua ultima recita interrotta bruscamente a Milano e questa romana c’è di mezzo un matrimonio con il tenore Infantino ed un figlio. Ed ecco un altro primo attore, Memo Benassi, che il pubblico della Capitale nelle recenti stagioni ha avuto poche occasioni di ascoltare. Ed ecco infine una folta schiera di primi attori, messi l’uno accanto all’altro, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Sandro Ruffini ed il buon Aristide Baghetti, che impersona nel dramma cecoviano Ferapont, il vecchio usciere del Consorzio Provinciale. E poi, accanto a questi maggiori, un gruppo di attori che il pubblico ha imparato ad amare non solo sulle tavole del palcoscenico, ma anche alla radio e sullo schermo: Elena da Venezia e Rossella Falk, Giorgio De Lullo e Marcello Mastroianni, Gianrico Tedeschi e Aldo Giuffrè. E, come se non bastasse, anche due ballerini, Alfred Kollner e Dimitry Konstantinow, che indossano la divisa di ufficiali e nel finale del secondo atto si lanciano in frenetiche danze russe e spiccano salti diabolici, in un autentico balletto, sì da togliere il fiato in gola agli altri attori.
Le tremila lire, che eccezionalmente la direzione del Teatro Eliseo ha chiesto al pubblico per questo spettacolo, sarebbero già ben pagate da questo ben di Dio. Ma divengono addirittura un modesto guiderdone, se si considera il fasto delle tre scene e dei costumi. Nel primo atto il famoso salotto a colonne e la sala da pranzo dei Prosorov appaiono semplicemente imponenti, tanto da rendere improbabile la facciata della stessa casa, bassa e quasi cadente, quale appare nel quarto atto. La scena inoltre, durante la recita, ha un lento movimento totale da sinistra a destra e da destra a sinistra per rendere maggiormente visibili i luoghi dove l’azione si svolge. Così nel salotto e nella sala da pranzo, come nella camera di Olga e di Irina del terzo atto, lo sfoggio delle suppellettili appare straordinario. Ninnoli, soprammobili, vasellame assortito, icone, coperte, cuscini ed un grande andirivieni di lumi che si accendono, si spengono e attraversano la casa, dando ogni volta la sensazione di accompagnare un fantasma. È sorprendente la rapidità con la quale Luchino Visconti, dovendo manovrare tanto e così diverso materiale animato e inanimato, riesce a realizzare i cambiamenti di scena. Vista dall’interno dopo il chiudersi del sipario, ogni scena delle Tre sorelle deve sembrare agli addetti ai lavori un cadavere preso d’assalto dalle termiti: un esercito di servi di scena, tatticamente predisposto, deve buttarsi all’arrembaggio per distruggere e ricostruire. Anche questo è certamente uno spettacolo suggestivo ed è un peccato che il pubblico non possa assistervi.
Né possono essere trascurati i rumori di fondo, che accompagnano tutta la recita, stabilendo quell’atmosfera di ossessione sonora che a Luchino Visconti è così cara e che rese indimenticabile la sua edizione di una commedia di Tennessee Williams poi apparsa anche sullo schermo nella originale interpretazione di Elia Kazan, Un tram che si chiama Desiderio. Nelle Tre sorelle canti popolari, squillanti sonagliere di troica, intermezzi pianistici, accordi di chitarra, solo di violino, canti festosi e trombe di mascherati, galoppate di pompieri, canti mormorati e gridati, batter di mani per accompagnar le danze, ululati nella foresta, fanfare reggimentali commentano lo spettacolo, che ha un ritmo lento, rotta da innumerevoli pause, e che pure non lascia davvero campeggiare spesso la parola del drammaturgo nel silenzio.
Insomma, in questo spettacolo tale e tante cose ci sono che desta persino meraviglia l’abilità veramente diabolica dimostrata dal regista Luchino Visconti nel farci entrare anche le Tre sorelle, vogliamo dire il testo di Anton Pavlovic Cecov. Perché, nonostante tutto, ci sono anche le tre sorelle con la loro smarrita poesia, con la loro desolazione interiore. Luchino Visconti ha accentuato fino all’estremo limite la insolubile disperazione delle tre sorelle nei suoi toni di triste monotonia, spegnendo il colore dei caratteri, allentando i tempi, creando soprattutto nel terzo atto un’angoscia insostenibile con i lugubri rintocchi di campane. In qualche momento il realismo ha impedito al regista di conservare la poesia. Ma lo spettacolo, anche nei momenti di compiacimento più evidenti rende egualmente il testo. Cecov ha dominato Luchino Visconti; si è imposto alla sua mano mossa da una fantasia incontenibile e indomita.
Alla fine gli applausi sono stati inesauribili. Il pubblico aveva un gran da fare. Doveva salutare gli attori che non vedeva da tanto tempo. Con essi doveva salutare anche gli altri attori che avevano tutti recitato bene, autorevolmente portati ad uno stile coerente nonostante le non poche diversità di temperamento. Doveva salutare il regista non soltanto per il suo gusto, ma anche per la sua sapienza organizzativa che aveva accomunato tanti e così disparati elementi di spettacolo. Doveva salutare lo scenografo Franco Zeffirelli ed applaudire il costumista Marcel Escoffier che gli appassionati di cinema ben conoscono. Doveva rallegrarsi con il traduttore Gerardo Guerrieri, con i musici, i danzatori. Doveva, infine, non dimenticare Anton Pavlovic Cecov, che mai si era trovato in così numerosa compagnia. Gi applausi sono stati, dunque moltissimi.
Questo spettacolo è una grande macchina: che sia costata venti milioni si vede. Ognuno può trovarvi pane per i suoi denti e materia per i suoi gusti, anche se non ha soverchia simpatia per le Tre sorelle.
Absit iniuria verbis: è uno spettacolo messo in scena con la sovrabbondanza di mezzi che in Italia è riservata esclusivamente alla rivista. È davvero uno spettacolo al quale Cecov resiste perché è un grande poeta e nel quale Luchino Visconti non si perde perché è un grande regista. Da questo caos, così come è nato un successo, poteva benissimo nascere una catastrofe di non minori proporzioni.
Giovanni Calendoli
(Festival)