Roma Maggio 1945

Ossessione è giunto sugli schermi romani con un ritardo di oltre due anni. Questi ritardi di solito nuocciono all’opera cinematografica, la più effimera tra quelle che s’abbeverano alle eterne fonti dell’arte. Due anni, che per un quadro o per una lirica sono appena l’infanzia, per un film sono la maturità, e possono anche esserne la vecchiaia. Ma, nel caso particolare, si direbbe che il ritardo, più che in un danno, si sia risolto in un vantaggio. Ossessione è un film che mira a distinguersi, a far spicco come un’oasi in un deserto. E il momento, che è di deserto per il cinema italiano di qualche valore, non avrebbe potuto essere più propizio alla sua presentazione.

Opera d’un artista isolato, tutta pregna d’intenzioni polemiche e di rampogne ai gusti convenzionali del pubblico, essa è stata concepita come reazione all’enfasi retorica e al facile lirismo di cui si nutriva la nostra produzione cinematografica di anteguerra: industria, assai più che arte, destinata ad essere travolta con le altre industrie nell’immane disastro. Dissipatosi un po’ il polverone del crollo, ecco che dalle macerie vien fuori questo film sgradevole ma sostanzioso, con l’aria del superstite che dice: “E adesso guardate a me, se volete pensare a ricostruire qualche cosa di solido”.

Si vuol dire con questo che Ossessione è un bel film, dotato per di più di qualità esemplari, tali da far testo? Bello non oseremmo davvero definirlo. E non perché l’ideale di bellezza che esso si propone è assai diverso da quello accettato dal gusto corrente, ma perché troppo di quell’ideale è rimasto polemica senza trasformarsi in arte. Quanto al valore esemplare del film, esso esiste, ed è fuori di discussione, ove si consideri l’opera di Luchino Visconti nella purezza delle sue finalità, e nella perfezione dei risultati raggiunti dalla sua tecnica. La regia di Ossessione offre un saggio più unico che raro d’una visione estetica sempre presente e fedele a se stessa, tutta nutrita d’intelligenza, tutta tesa a creare un’opera compatta, omogenea, conseguente alle premesse cui si era ispirata.

Dicevamo nella cronaca precedente che la vita artificiale e la luce artificiale sono i nemici numero uno del cinema inteso come arte; che il cinema italiano aveva troppo abusato di rappresentazioni d’una vita fittizia sui fondali di cartapesta dei teatri di posa; che, se voleva rifarsi una verginità, doveva rappresentare la vita come è, e uscire all’aperto a riprendere muri veri, alberi veri, cieli veri. Luchino Visconti non aveva atteso questi consigli, del resto lapalissiani, per rappresentare l’umana vicenda di Ossessione con un verismo addirittura spietato, ponendola sullo sfondo di un passaggio vero, tipicamente italiano, qual’è quello della bassa ferrarese.

La storia della donna maritata a un uomo più vecchio di lei, la quale s’innamora perdutamente d’un giovane vagabondo, e lo induce a provocare la morte del marito per poter convivere liberamente, e lo perseguita con il suo amore quand’egli vorrebbe liberarsi di lei sopraffatto dal disgusto e dal rimorso, e infine muore dalla stessa morte che aveva procurato al marito, proprio quando una maturantesi maternità stava per dare una nuova luce alla sua passione colpevole: questa storia cupa e disperata, che nei suoi toni notturni e ossessivi rivela un genere di passionalità inconsueto nell’anima italiana (essa è tratta, infatti, da un romanzo americano), è analizzata dal regista con uno spirito d’osservazione puntuale e metodico, che non rifugge dai particolari urtanti e volgari anzi insistendovi con una sorta di compiacimento, e vorrebbe essere un realismo che ricordi addirittura il verismo sperimentale del romanzo zoliano. Potrebbe dover attribuirsi a questo spirito veristico la frequenza di notazioni che offendono, se non la moralità, almeno il buon gusto, e la piatta sciatteria del dialogo.

Ma il rapporto del verismo di Ossessione con quello del romanzo francese fine Ottocento, ed anche il richiamo assai frequente ad un genere di realismo cinematografico che ha trovato la sua migliore espressione in alcuni film di Marcel Carné, sono soltanto apparenti. In realtà l’osservazione del regista di Ossessione è diretta, più che a riprodurre il vero, a creare una particolare atmosfera che pesa sul dramma come un’aria irrespirabile, e aderisce come una camicia di Nesso al disegno dei singoli personaggi. Ma questa atmosfera, che nel film di Carné mira a trasfigurare la realtà, a sollevarla in un clima lirico, tanto da poter essere letterariamente definita un’aura poetica, in Ossessione non riesce a liberarsi dalla tentazione intellettualistica che la produce, non scioglie certa freddezza da esperienza di laboratorio, e insomma non diventa poesia.

È questo il maggior difetto del film, che non sapremmo accusare d’immoralità, come è stato fatto mettendo avanti ragioni estranee all’arte, ma sì di non aver saputo infondere al dramma dell’ostessa Giovanna e del meccanico Guido quell’umano calore e quella necessità di sviluppi, che ne avrebbero giustificato dal punto di vista estetico certi atteggiamenti esorbitanti dall’idea corrente di moralità e di convenienza. Il dramma resta freddo, chiuso, insistito su un tono troppo uniforme. Manca di una catarsi. Per le anime dei due amanti, avvinti da un legame tutto carnale, non c’è liberazione. Una luce a quell’amore tormentoso pareva venire dall’incipiente maternità della donna: ma anch’essa viene spezzata dalla morte.

Così, il valore singolare di Ossessione, assai più che al dramma — il quale ha trovato un’interprete davvero ammirevole in Clara Calamai — resta affidato al tessuto di immagini di cui l’ha rivestito il regista Visconti. Tessuto prezioso per la compiutezza e la evidenza del disegno, che sbalza le figure umane su fondi quasi sempre scuri, immergendole in una luce d’incubo. Ma all’oscurità di questi interni, che accentua la cupezza del dramma, fa da contrappeso la solarità del paesaggio, che circonda l’osteria campestre dove si svolge gran parte della vicenda. È il paesaggio della bassa padana, con le sue strade larghe e assolate che si perdono verso orizzonti polverosi; coi suoi argini alti come muraglioni, dietro cui le abitazioni umane si riparano dalle piene del fiume che scorre lento verso la foce. Caldo, sole, polvere, mosche: una natura talora illividita da un riflesso di temporale estivo, che aderisce anch’essa al carattere torbido dell’amore dell’ostessa e del meccanico; la parentesi cittadina delle scene riprese nella piazza del Castello Estense e nelle viuzze della vecchia Ferrara; talora una freschezza di brani di vita paesana e campestre, culminante nel bellissimo passaggio dei due vagabondi che s’avviano suonando verso una vita di libertà. Tutta questa parte di Ossessione, dove il regista fissa momenti del dramma umano su un ambiente naturale con le sue sapienti inquadrature, riscatta il film da quanto di troppo voluto e programmatico si avverte in altre parti, e lo rende più interessante, se non il più riuscito, della produzione italiana degli ultimi anni.

Abbiamo avvertito in principio che si tratta d’un film sgradevole, talora urtante. E, se è vero che la piacevolezza non è un requisito necessario all’arte altro che nel giudizio dei droghieri, è anche vero che il cinema, legato a quelle esigenze sociali e morali per la sua influenza immediata sulle folle, ha un campo di azione meno libero di quel che possano averlo un quadro o un romanzo. Perciò non ci sentiremmo di proporre tutto in blocco il film di Luchino Visconti come modello a coloro cui spetterà il compito di rifare una vita, che sia una vita propria, al nostro cinematografo. Ma ci sentiamo senz’altro di indicarlo come un esempio per quanto riguarda la nobiltà dell’indirizzo e la serietà del metodo di lavoro.

Arnaldo Frateili
(Maschere)

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