Roma, 23 marzo 1946. Abbiamo veduto lo spettacolo de Il Matrimonio di Figaro che capitali milanesi hanno finanziato con sontuosità nababbica, annunziato a firma di Beaumarchais, perché da questo ispirato. Sull’esempio parigino di una nota « regia creativa » di Charles Dullin, l’estroso direttore Luchino Visconti s’è sbizzarrito a darci una variazione dell’insigne opera, come una libera fantasia coreica su tessuto di parole. Egli, forse, ha voluto a suo modo, creare una « commedia a ballo » di genere seicentesco, pure se di gusto modernista.

Si voglia, a proposito, osservare che la « comédie ballet » di Molière non era testo danzato, ma testo recitato a parte, e intramezzato da balletti.

Soltanto la canzone a ballo rappresenta un’opera d’arte regolare, fondata su leggi antiche, precisamente fissate fin dal Duecento. La poesia era qui composta per esser cantata a regolare la danza. Nella forma tradizionale ogni strofa recava la sua ripresa, non mai più lunga di un tetrastico, e ad essi seguivano nuove stanze di identica conformazione, sviluppate per due mutazioni e una volta, corrispondenti ai moti e alle fermate del ballo, e alle arie del canto; ciò che si vede nelle ballate letterarie del tempo di Dante.

La pensata del Visconti, di far parlare gli attori tra giravolte e passi di danza, inframmezzando le battute con figurazioni e movimenti di commento plastico al senso del testo, è trovata astratta e teorica che, nel fatto pratico, si dimostra in equivoco. Le parole della prosa non posseggono un ritmo sul quale appoggiare passi sincroni: esse non si possono ballare senza discordia. Il risultato è quello di cacciar negl’impicci l’attore; il quale deve pensare a ballare più che a recitare, o a recitare più che a ballare, secondo la sua preferenza, non essendo facilitato da un procedimento unisono delle sue espressioni.

(…)

Il Visconti vorrà permetterci una discussione dei suoi sistemi novatori, sicuro della nostra solidarietà in ogni svecchiamento. C’è giunta notizia delle sue pretese di realismo alla Antoine, nella messinscena di Via del tabacco e, anche in queste, non riusciamo a consentire con lui come vorremmo.

È proprio fenomeno di questi giorni l’applicazione di criteri cinematografici al teatro, causati dalla sopravvenuta collaborazione dei cineasti alla vecchia scena. Visconti è giunto a pretendere dagli attori di Via del tabacco, che si facessero crescere barba e capelli al naturale, per apparire incolti.

Ma, in tutti i tempi, il teatro è stato mascheratura; e tale dev’essere oggi, e sempre, se non vuol tradire l’essenza della sua bravura. Tanto più è bella la maschera, quanto più è somigliante, ma ha da essere maschera. Il pollo di cartone dev’essere ognora il Re della scena e, se è un nobile pollo teatrale, deve risultare appetitoso, come vero. Altrimenti dove finisce l’abilità della finzione? E finzione deve restare, se vuol restare arte.

Ma da trent’anni noi ripetiamo che il « teatro » dev’essere « teatrale »: macchinato, ma poeticamente finto. Che, stiamo ancora a confondere la fotografia con la pittura?

Queste discussioni sono arretrate di mezzo secolo: questioni già messe a tacere. Sembrerebbero, pertanto, rigurgiti di maldigerite idee, o fermenti di reminiscenze che s’illudono di originalità. Di fatto, sono trovate meditate poco, che rientrano nella inflazione generale di tutte le cose.

Non meno ingenua delle barbe vere è la pratica dei piedi nudi alle prove, imposti dal Visconti, ai comici.

Egli ha rivelato che i contadini possono con disinvoltura, camminar sugli sterpi e i sassolini, avendo i piedi incalliti. È per loro, come se i sassolini non ci fossero. Nella Via del tabacco è necessario far andare i comici coi piedi nudi, e pertanto egli ha voluto abituarli a camminare con la stessa nota naturalezza dei contadini. Gli attori dovevano camminare come se non sentissero i sassolini.

Eppure era semplice fare all’antica: « fingere » la presenza dei sassolini con risoluzioni imitative che non dessero fastidio alla pianta dei piedi, e raggiungere felicemente il risultato del camminarci sopra. come avendo le piante incallite dei contadini.

Anton Giulio Bragaglia
(Star)