Su Luchino Visconti — indubbiamente uno dei massimi registi della storia del cinema italiano e tra i pochi che si possano veramente classificare tra i « maestri » del cinema mondiale — solo recentissimamente è uscito il primo ampio studio monografico (Pio Baldelli: I film di Luchino Visconti, Lacaita Editore, 1965, lit. 2.000), una magari discutibile ma indubbiamente acuta ed argomentata analisi delle opere cinematografiche del regista, da Ossessione a Il Gattopardo. Ma a parte lo stimolante studio di Baldelli — estremamente polemico nei confronti di tutta una tradizione critica viscontiana, come già si sapeva da alcuni studi dello stesso autore apparsi una decina di anni fa su Società — il panorama di studi viscontiani in Italia è assai desolante, sia qualitativamente che quantitativamente. Basterà pensare, per offrirne un utile termine di paragone, che nella sola Francia, e nei soli ultimi due anni e mezzo sono usciti tre volumi sul regista de La terra trema, di cui due, paradossalmente, sono stati scritti da due autori italiani. Ciò, se da un lato induce a seriamente e tristemente riflettere sulla generale situazione della editoria cinematografica in Italia, dall’altro dà un particolare significato ed una rilevante importanza all’iniziativa del Premio Città di Fiesole ai Maestri del cinema italiano, che, appunto con tre giornate di studio dedicate a Visconti, e con il conferimento di un particolare riconoscimento al regista, si svolgeranno a partire da domani 27 giugno per chiudersi il giorno 29.
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Uno dei punti che più risalteranno dal confronto delle idee (a giudicare sia dai nomi dei relatori, che hanno tutti posizioni critiche abbastanza precise e note, che dalla oggettiva problematica critica che offre la filmografia viscontiana) sarà quello della particolare qualità di ciò che potrebbe essere chiamato il « progressismo estetico » viscontiano (inteso come un risultato pienamente raggiunto, o comunque un parametro sul quale misurare i giudizi) sono nati a tuttora perdurano grossolani errori di valutazione dei singoli film, tale questione diviene fondamentale per una corretta esegesi dell’opera del nostro regista.
Molte volte, ad esempio, si è letto ed inteso di come nel personaggio dello Spagnolo di Ossessione siano da ritrovare la luce positiva, l’indicazione ideologica, e la prospettiva in ragione delle quali acquista un senso la condanna morale dei due protagonisti. Ma è un fatto che lo Spagnolo è un personaggio ambiguo, sfuggente, impreciso e che, al di là di una venatura vagamente libertaria e romanticamente anarcoide, esso è del tutto insufficiente a dare corpo ad una qualche volontà di indicazione prospettica. Proprio recentemente, uno dei collaboratori del film, Mario Alicata, in una testimonianza portata ad un Seminario sul cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, riconosceva la velleitaria povertà di tale personaggio, qualora inteso come chiave ideologica positiva del film.
Molte volte ancora, per proseguire esemplificando, si è letto ed inteso di come il protagonista de La terra trema, ‘Ntoni Valastro, avrebbe, pur nella sconfitta, raggiunto la piena coscienza della propria condizione e dei mezzi adatti per modificarla e di come non un « vinto » egli sarebbe bensì un « vinto vincitore ». Ma poche cose, in quel pur grande film che è La terra trema, risultano « dette » e non « raccontate », razionalmente volute ma non esteticamente espresse, come le tre o quattro battute con le quali ‘Ntoni (personaggio vero ed autentico fino a quel punto) si trasforma in « morale della favola » e, perdendo la sua autonomia poetica, diventa schematico portavoce di una ideologia che Visconti accetta ma non sa rendere artisticamente viva.
E ancora quello che avrebbe dovuto essere il « personaggio positivo » di Senso, il patriota Ussoni nel quale avrebbero addirittura dovuto riassumersi le compresse e represse componenti popolari del Risorgimento. Appunto anche Ussoni — benché tartassato dalla censura in uno degli episodi di più triste idiozia della pur tristissima storia censoria del dopoguerra — non è un personaggio non solo nel film censurato, ma neppure in sede di sceneggiatura : esso, in specie in confronto alla robustezza dei due protagonisti, è una figurina dai contorni vaghi e scoloriti, che amano, sì, ideologia e progressismo , ma ne emana in troppa copia per la propria scarsa statura di personaggio, e le emana per di più con quel tanto di retorica che non lo esenta dal ridicolo. Né qualitativamente più consistente e dotato di una maggiore chiarezza poetica appare quello che per taluni dovrebbe essere il « personaggio positivo » di Rocco e i suoi fratelli, Ciro figura davvero amorfa ed accessoria del film, come è stata definita, nella quale è forse più giusto riconoscere la sfiducia del regista nella possibilità di un riscatto, che la speranza in esso.
Un discorso critico su Visconti che tocchi anche questo punto che abbiamo variamente e frettolosamente esemplificato, non potrebbe che contribuire positivamente ad una giusta valutazione della complessiva opera viscontiana. La quale si pone tra le più rilevanti (e forse per coerenza pluriennale, la più rilevante) dell’intero cinema italiano, ma non perché caratterizzata da quel tipo di « progressismo estetico » che taluni critici hanno in essa voluto vedere — spostando e deformando tutto il problema viscontiano — quanto per la coerente precisione, per la vigorosa efficacia e per la poetica corposi con cui Visconti ha saputo essere l’impietoso poeta della decadenza, della distruzione, dello spasimo finale di un mondo al tramonto e — quando si è occupato di personaggi popolari — per il convinto vigore con cui ha saputo dare il quadro della loro sconfitta. Visconti — ed il suo stile ne è la più incontestabile riprova — non è mai stato il poeta della speranza proletaria, ma il lucidamente consapevole narratore della fine di un mondo, vista e sentita però come fine del mondo; senza aperture poetiche, cioè, verso un futuro ma con la amarezza a volte cinicamente disperata di un presente che sta per consumarsi.
Lino Micchiché
(tratto dall’Avanti!, 26 giugno 1966)