Genova, 18 ottobre 1969

Un Luchino Visconti estremamente lucido, disteso e cortese si è intrattenuto con critici e giornalisti in occasione della prima rappresentazione italiana del suo ultimo film, La caduta degli dei. Un’anteprima era stata fatta la sera avanti a Roma. Ma, nonostante il comprensibile disagio per la manifestazione andata avanti a lungo nella notte e per lo spostamento aereo in prima mattina, il regista era in forma perfetta.

Ottimo critico di se stesso 

Visconti è un interlocutore gradevolissimo soltanto quando è soddisfatto del proprio lavoro. E, in genere, si direbbe sia un ottimo critico di se stesso. Le conferenze stampa veneziane dopo la proiezione di Vaghe stelle dell’Orsa e Lo straniero ebbero tutta l’aria di scontri oltremodo sgradevoli: con un Luchino aggressivo, sarcastico, in certi momenti esplicitamente sprezzante. Quei suoi due film, specialmente il secondo, lasciavano aperto un buon margine di perplessità. Tutto al contrario si era comportato, circa vent’anni addietro, per la presentazione genovese di La terra trema.

La consapevolezza di esser riuscito ad esprimersi come voleva, pare infondergli una sorta d’allegrezza, di soddisfatta malizia, di pacificata cortesia. Viene a galla, allora, il gentiluomo lombardo d’antico casato unitamente all’intellettuaIe di larga esperienza europea: il raffinato cultore di Tomas Mann, insomma. La caduta degli dei non sta all’altezza di La terra trema; ma è un’opera estremamente suggestiva, al tempo stesso sottile e complessa, parallelamente nutrita di inquietante sensibilità e di rigorosa chiarezza ideologica. Un film di autentica classe, insomma. Ed ecco Visconti a tener banco con amabile civiltà e puntualizzanti capacità critiche.

La prima e fondamentale indicazione -— o conferma — che proviene da La caduta degli dei è questa. Che come molti suoi colleghi, anche Visconti appartiene a quel tipico clima culturale e artistico novecentesco che si è soliti definire «decadentistico ». Ma, a differenza dei più dei suoi colleghi, Visconti è criticamente consapevole di questo clima e riesce a porsi nei suoi confronti in una posizione di fruttuosa dialettica. Ciò, principalmente, a cagione del fatto di non aver perso fiducia nel valore dell’ideologia. Ove si eccettui un paio di sue cose più febbrili (come Le notti bianche e, in parte Vaghe stelle dell’Orsa), il decadentismo di Visconti si manifesta esclusivamente in quella sorta di prelibato « pastiche » che, nel suo linguaggio espressivo, segue il congregarsi di modi ed elementi di disparata provenienza. Sul piano concettuale, invece, la salvezza dal decadentismo sta nell’interpretazione ideologica della vita e della storia. E gli strumenti culturali più tipici del decadentismo nei suoi film non vengono « confessati » (più o meno soffertamente, più o meno dolorosamente), ma rappresentati in atto, assimilati al quadro storico e ideologico.

Il freudismo, ad esempio, non dà luogo in Visconti a tormentose liberazioni psicosessuali (Pasolini) o a visualizzazioni psico-infantili (Fellini). In La caduta degli dei, l’elemento psicoanalitico detta oggettivamente il comportamento del giovane Martin von Essenbeck, parallelamente, nei confronti della madre Sophie e nei confronti del nazismo trionfante. Altrove, in Vaghe stelle dell’Orsa, il freudismo si legava al vasto tema generale del decadimento e la consunzione delle famiglie borghesi. Tema tra i più frequenti nella narrativa cinematografica viscontiana, in cui la famiglia figura in crisi a tutti i livelli sociali (da quella proletaria di La terra trema a quella aristocratica dei Serpieri di Senso: per diversa spinta, si intende); ma specialmente al livello borghese. E l’atroce furore autodistruttivo che soffia sulla casa teutonica dei costruttori di cannoni in La caduta degli dei ne è il più scandito suggello mortuario.

Dissipazione dell’aristocrazia

Ma, in se stesso, un tema siffatto apparterrebbe ancora alla tavolozza decadentistica. Nel nuovo film di Visconti, infatti, non è esplicito riferimento all’impostazione ideologica in termini di classi sociali che motivava sue opere passate. La miseria, il più oscuro destino alienante, sono le cause della perdizione della famiglia di Acitrezza; allo stesso modo che in Senso si evidenzia l’intrinseca dissipazione sentimentale e morale della aristocrazia. Sta il fatto che Visconti non è mai stato un ideologo rudimentale e schematico; non è mai ricorso alle contrapposizioni polemiche tanto più improbabili quanto più brusche (in Rocco e i suoi fratelli, il discorso drammatico era tutto mantenuto, ad esempio, entro il confine sociale di una famiglia proletaria meridionale immigrata a Milano). La sua ideologia, fortunatamente, tiene ben più presente la storia che la polemica. Così, al fallimento aristocratico si accompagnava, in Senso, l’entusiasmo positivo del liberalesimo d’estrazione borghese: che, nella prima guerra dell’indipendenza italiana, è una presenza storicamente esatta. Altrettanto storicamente esatto è stato, in Il gattopardo, sottolineare certe ambiguità dello stesso liberalismo borghese nella campagna di Sicilia, certe sue nascoste mire politiche e mercantili, certo suo « crispismo » deteriore. O il senso espansionistico che per l’alta ufficialità piemontese ebbe quell’operazione.

Su tale strada, si trova anche La caduta degli dei. Qui lo scoppio cieco di violenza, il vortice di dannazione che investe la dinastia dei più grossi acciaieri della Germania 1930, condannandola all’autoannientamento e allo sterminio, si intona ineluttabilmente al dilagare della demonica follia hitleriana e del fanatico odio dei suoi seguaci. La conservazione dei propri privilegi, da parte di un potente clan industriale, ottenuta legando le proprie sorti a quelle della vecchia barbarie camuffata sotto l’etichetta dell’ordine nuovo: tutto ciò è il preambolo ideologico del film. La sua sostanza, invece, è nell’impressionante rappresentazione del destino di morte connesso ad ogni disumana orgia di violenza.

Alla fine del racconto, il giovane Martin, sadico e stupratore, resta il solo padrone delle acciaierie, dopo esser stato testimone o istigatore del reciproco annientamento dei familiari. Anche il nazismo, nel frattempo, è restato a dominare il campo dopo le stragi di nemici e alleati.

Mauro Manciotti
(Il Secolo XIX)