Roma, 7 novembre 1965

È chiaro che la cultura italiana non aveva bisogno d’un altro Cecov a Roma; per questo ci siamo recati al Teatro Valle, per il debutto del Teatro Stabile di Roma, piuttosto maldisposti: non è piacevole, infatti, sorbirsi per la ventesima volta nella propria vita la torturante noia di assistere ai diluiti e atmosferici esibizionismi registi sulle pièces del medico russo che credeva di scrivere divertenti e malinconici vaudevilles e non già piomboniche  pièces larmoyantes. Ma Visconti ci ha sorpresi. Per la prima volta abbiamo visto uno spettacolo cecoviano che, almeno nelle intenzioni, si avvicina allo spirito di Cecov. Ripudiando gli smalti, le strida e i lenti guaiti delle sue precedenti edizioni, Visconti ha stretto i tempi e mosso la recitazione inquadrandola in scene piuttosto semplici e bigie, seppure arredate con veristico rigore. Fiabeschi ciliegi fioriti  — simbolo della purezza perduta, della felicità che tramonta, — campeggiano sul verde sbiadito del fiume. Un Visconti, irriconoscibile, che ha passato il fosso del dilettantismo e professionismo. Dopo la catena degli insuccessi teatrali che ha totalizzato in Italia e in Francia, dopo gli inqualificabili sperperi, Visconti sembra aver tirato i remi in barca ben sapendo che prima o poi sarebbe finito come Rossellini. Non si può tirare troppo a lungo la corda. Un ravvedimento, insomma.

Diciamolo, però, sùbito. L’edizione de Il giardino dei ciliegi che ci ha dato è discutibile. È ancora lontana dalla realizzazione ideale. Ma la chiave è quella. La volontà di strapparsi da un’ottusa corrente per riavvicinarsi con freschezza di ispirazione al difficilissimo e impalpabile tessuto cecoviano, merita stima e rispetto. Se Zeffirelli ha capito tutto del Romeo e Giulietta di Shakespeare e ha saputo realizzarlo, Visconti, che ha capito finalmente Cecov, non ce l’ha fatta fino in fondo. Lo spettacolo è più festevole che spumeggiante, più agitato che mosso, più spiritoso che umoristico. Visconti non possiede il classico sense of humour e neppure la fantasiosa surreale fredda comicità del clown. Daltonico, in questo senso, non poteva realizzare ciò che aveva « programmato » criticamente.

Degli attori non c’è molto da dire. In ordine di bravura: un ottimo Sergio Tofano nei panni del cadente servo Firs, una solida Rina Morelli nell’aristocratica dignità d’una peccatrice senza bussola, un’incattivita Lucilla Morlacchi, un avido e ansioso Tino Carraro, un impacciato, goffo e sfocato Massimo Girotti, un’abbaiante Stoppa nella macchietta d’un nobile  neghittoso e « fesso », una sensibile Ottavia Piccolo, un festoso e pletorico Armando Migliari.

Alberto Perrini
(Lo Specchio)