“Non è una novità: i bei film non nascono dai bei libri”
Roma, novembre 1975. Visconti ha finito di girare le scene lucchesi di L’innocente. L’ultima, che rappresenta il funebre pranzo di Natale in casa Hermil, lo ha fatto particolarmente penare per via della malattia della Morelli che nel film impersona la madre di Tullio, il protagonista. Siccome Visconti, è noto, non transige con i tempi, e d’altra parte l’attrice tardava a ristabilirsi, si è dovuti ricorrere a una controfigura. Così l’orario è stato rispettato. Senza quel contrattempo, Visconti avrebbe finito tre giorni in anticipo. Ora la compagnia, trasferita a Roma, è al lavoro nella villa Mirafiori sulla Nomentana che fu costruita da Vittorio Emanuele II per la sua amante, la famosa Rosina.
Se ho accennato alla puntualità di Visconti è perché essa è una prova dell’impegno quasi fanatico col quale il regista è tornato al lavoro. La malattia non lo ha scoraggiato.
« Non bisogna arrendersi al male » egli dice « ma combatterlo; e il miglior modo per sconfiggerlo è il lavoro ». Il lavoro per L’innocente è stato, come sempre del resto quando Visconti è sul set, duro, metodico, senza lasciar nulla al caso e all’improvvisazione. Visconti non andava mai a letto (verso le due) prima di aver preparato tutto il materiale per il giorno dopo.
Aveva avuto molte difficoltà a trovare gli attori ma alla prova questi hanno risposto al dilagare di ogni aspettativa. E non solo Giancarlo Giannini (Tullio) e la Morelli (la madre), ma anche Laura Antonelli (Giuliana, la moglie di Tullio) sulla quale si potevano avere dei dubbi, essendo la prima volta che affrontava un ruolo drammatico. Così il confronto di Visconti con D’Annunzio, confronto al quale il regista pensava da molti anni senza decidersi al passo, si è svolto felicemente e ora si avvia a una conclusione vittoriosa.
Si è detto che la versione che Visconti dà di L’innocente è molto libera, che il romanzo è niente di più che un pretesto. Non è assolutamente vero. Anche se l’ambiente è diverso, anche se alcuni personaggi (il fratello, l’amante) non ricopiano il modello dannunziano, e la conclusione della storia di Tullio e Giuliana è un’altra, Visconti si è tenuto quanto più possibile vicino al testo.
Quando gli ho chiesto: chi è il Tullio di Visconti? mi ha guardato un po’ sorpreso prima di rispondere: « È al cento per cento il Tullio di D’Annunzio, un uomo violento, forte, determinato, lucido, privo dei languori che a volte annebbiano gli altri eroi dannunziani, che arriva freddamente al suo scopo: l’eliminazione del bambino, l’innocente, nato dall’amore adulterino della moglie. ».
Questa adesione profonda al modello non significa che L’innocente gli piaccia. Non gli piacque quando lo lesse per la prima volta (gli preferiva Il piacere, Il trionfo della morte e Forse che sì forse che no) e non gli piace oggi. « Con L’innocente », dice, « D’Annunzio voleva rifare Dostoevski e invece ha rifatto solo Bourget. Ma anche Bourget può servire per un film, e del resto non è una novità se dico che i bei film non nascono dai bei libri. Finora conosco solo un’eccezione, il Guerra e pace, fatto dai russi. »
Gli faccio osservare però che questa fedeltà del suo Tullio a quello di D’Annunzio è smentita dalla conclusione. Mentre nel romanzo Tullio sopravvive all’infanticidio, di cui la moglie è consapevole, nel film non resiste e si uccide.
Visconti è pronto per la replica. « Tullio è un egoista, che riflette l’infatuazione un po’ provinciale di D’Annunzio per il superuomo di Nietzsche. Oggi un personaggio del genere sarebbe irreale, farebbe ridere. Col suicidio Tullio denuncia il fallimento del suo personaggio (non dico della sua teoria in quanto per fortuna, egli non filosofeggia, non disquisisce mai come uno Stelio Effrena o altri eroi dannunziani) ma lo fa da superuomo, dichiarando all’amante, Teresa Raffo, che la giustizia degli uomini non può toccarlo e che lui solo può decidere della sua sorte. Sono del resto parole di D’Annunzio stesso, scritte al principio del romanzo. »
Continuiamo a parlare di Tullio. A me questo superuomo di campagna non piace. E poi che superuomo è questo coniuge tradito che fa morire un bambino perché la moglie gli confessa che è di un altro (uno scrittore, Filippo D’Arborio) col quale ha avuto un’effimera relazione? Non è un po’ troppo vittima di un pregiudizio borghese per aspirare a essere discepolo di Zarathustra? Io direi che somiglia piuttosto a un marito meridionale con l’aggiunta di una certa burbanza di nobilotto di provincia.
« Sì », ribatte Visconti, « ma il motivo che spinge Tullio al delitto non è il pregiudizio dell’onore, è la gelosia, un’autentica gelosia. A lui pare impossibile che un letterato chiacchierone abbia la meglio su un uomo della sua qualità, su un seduttore così irresistibile. È ferito nell’intimo del suo istinto. La gelosia lo fa innamorare nuovamente di Giuliana che aveva completamente sacrificato all’amante , e gli rende insopportabile la vista del bambino, l’intruso. »
Devo a Visconti di sapere la vera origine del romanzo. Ha cominciato indicandomi una fotografia di Laura Antonelli nelle vesti di Giuliana, attaccata alla parete del suo studio. « Vede come somiglia alla duchessa di Gallese, la moglie di D’Annunzio? Somiglia anche alla Duse, ma soprattutto alla Gallese. »
La duchessina Maria di Gallese era in realtà la figlia di un sottufficiale francese degli zuavi, un certo Hardouin, intrufolatosi per vie traverse nella nobiltà romana. Era giovanissima quando il poeta, anche lui poco più che ventenne ma già celebre, la rapì. Fu un matrimonio, in apparenza, molto romantico, di quelli che promettono eterna felicità, e che invece ebbe brevissima durata. E la colpa non fu, come si potrebbe credere, del volubile Gabriele, ma della nobile giovane che cominciò a farsi vedere spesso in compagnia di altri uomini. Avventure di cui Scarfoglio dava notizia senza perifrasi nelle cronache mondane del Mattino. »
Il divino Gabriele, l’amante fortunato delle più belle donne dell’epoca, con le corna? Si direbbe un sacrilegio. Ma era la verità. Ed era anche vero che l’offesa non lo lasciava indifferente. Tanto che la pochade rischiò di finire in tragedia. La Gallese si gettò da una finestra; ma aveva ben calcolato l’altezza e non si fece nulla. Oltre alle corna D’Annunzio si ebbe anche le beffe. Per sua fortuna aveva cominciato a consolarsi con un’altra, la Barbara Leoni. La ferita però doveva bruciargli ancora se non altro nell’immaginazione che in un poeta conta quanto la realtà. Così L’innocente, scritto tre o quattro anni dopo l’episodio, va letto in questa chiave autobiografica.
Visconti racconta queste cose ridendone cosicché vien fatto di chiedersi se per caso non abbia lasciato trapelare nel film la sua ironia. Niente affatto. Visconti non ha scherzato col testo dannunziano. Per lui L’innocente, mediocre romanzo, è un eccellente copione cinematografico, perché lineare, essenziale, senza le fastidiose descrizioni-digressioni che appesantiscono gli altri romanzi del vate. E la storia che ne ha ricavato è seria, appassionata e dolorosa.
Poco dannunziano il romanzo, è poco dannunziana anche l’epoca in cui si colloca. L’innocente fu scritto nel 1890, in piena epoca umbertina, un’epoca greve e piuttosto triste. Il dannunzianesimo, nel gusto, cominciò più tardi, all’alba del secolo. E perché allora Visconti, deciso a far D’Annunzio, non ha scelto un testo più esemplare del poeta, Il piacere per esempio?
« L’avrei fatto volentieri », spiega, « ma sarebbe stato materialmente impossibile. Il piacere non si può immaginare che ambientato a Roma. La Roma che D’Annunzio ha rappresentato nel suo primo romanzo è stupenda e ancora ci commuove, ma non esiste più. O meglio esistono Piazza di Spagna, via Gregoriana, la salita delle Tre fontane, come allora, ma sotto una rete di novità, fili del telefono, della luce, insegne, apparecchiature, senza contare le automobili, che la rendono irriconoscibile. Se la immagina Elena Muti che sale oggi la Trinità dei Monti fra le bande di hippy e di lazzaroni vari accampati sugli scalini? »
« E poi Il piacere », insiste Visconti « da un punto di vista drammatico è molto povero. In sostanza tutto il dramma si riduce allo scambio di un nome, fra Maria ed Elena, una gaffe si direbbe più che un “errore fatale”, di cui si rende colpevole l’impeccabile Andrea in un momento di abbandono. »
E quando dico: « Ma Sperelli, in ogni modo, è un bel personaggio, sia pure antipatico, molto rappresentativo dell’epoca, il tipo dell’esteta, che non ha altra moralità che l’arte », predica e chiude: « Troppo rappresentativo, oggi farebbe ridere. »
Manlio Cancogni
(Il Mondo)