Del drammaturgo americano Arthur Miller giustamente ha detto il critico suo connazionale Eric Bentley che non si sa mai con precisione dove vuole andare a parare. Non è mai chiaro, cioè, se a regolare la tensione dei suoi drammi e il destino dei personaggi sia l’eterna condizione dell’uomo o non invece la condizione storica della società in cui il dramma si svolge. Indeciso tra la gloria del poeta tragico e quella del drammaturgo sociale, mirando a Shakespeare senza perdere d’occhio Shaw, Miller finisce per scontentare un po’ tutti.

È quel che gli accade con la Morte di un commesso viaggiatore. Non parliamo del successo mondano che fu enorme e della critica commerciale che gonfiò le gote. Ma i critici “highbrow”, i critici altezzosi e di manica stretta storsero il muso. I “marxisti” d’America accusarono Miller persino di doppio gioco: avendo egli cominciato con lo scaricare sulla società capitalista la responsabilità della sorte tragica di Willy Loman, viaggiatore di commercio, perché mai aveva ripiegato su una vaga fatalità che il personaggio portava in se stesso? I critici “borghesi” di rincalzo dissero che quando non si possiede il genio di Ibsen per fondere due visioni del mondo occorre decidersi per luna o per l’altra.

Ma veniamo al Crogiuolo, rappresentato sere fa al teatro Quirino. Vi è rievocato uno dei più atroci episodi di fanatismo religioso, la caccia alle “streghe”, che sul finire del diciassettesimo secolo sconvolse e disonorò la città di Salem nel Massachusetts. Ma anche questa volta non è ben chiaro dove miri l’autore. Che cos’è che dà tanto lavoro alle forche di Salem, lo spirito eterno dell’intolleranza e del male o quella data società puritana, quella data teocrazia reazionaria del Massachusetts, che per rozzezza e dispotismo oligarchico si distingue dalle comunità circostanti della Nuova Inghilterra, le democratiche e pie congregazioni quacquere di Rhode Island e del Connecticut, e si riallaccia invece, nelle intenzioni dell’autore, all’America del Ku Klux Klan e del senatore McCarthy? Anche qui la tragedia della condizione umana e il dramma sociale proseguono di pari passo riuscendo solo nello intento di confondere le idee allo spettatore il quale a un certo punto preferisce starsene alla lettera del racconto e gustarsi lo spettacolo per quello che appare.

Né noi sapremmo dargli torto. Perché a seguire l’autore al di là della lettera della lurida faccenda delle streghe si Salem per arrivare, attraverso la figura del vice governatore Danforth, a quella di McCarthy e, attraverso i coniugi Proctor, ai coniugi Rosenberg, molto ci sarebbe da dire. E anzitutto che le streghe non esistono e l’insidia totalitaria è reale come la luce del sole o la tenebra di mezzanotte, e per ogni liberale degno del nome non è ignominioso ed è anzi meritorio prevenirla e farle fronte. Disonorevole è combatterla con i sistemi rozzi, provocatori e fascisti del famigerato senatore.

Ad ogni modo, e dando pure per buone l’analogia e l’immagine delle streghe, Miller ha mancato il punto davvero dolente della questione, l’offuscarsi e smarrirsi di tante coscienze liberali nell’urto feroce e sconcio dei fanatismi contrastanti. Questo è il dramma più doloroso della nostra età. Uomini illuminati e liberi che non reggono alla tortura, così caratteristicamente moderna dell’infuriante propaganda di menzogne, e finiscono per dire come l’innocente Giovannino della commedia dei De Filippo, dopo che tutti gli gridano che egli è un ladro: « Ma che sia vero? ». Se il serio intemerato e, per i suoi tempi, illuminato contadino Proctor soverchiato alla fine dalla montante e schiumante isteria collettiva, avesse esclamato anche lui: « Ma che sia vero che Salem è piena di streghe? » solo in quel momento la torbida storia di Salem sarebbe diventata davvero storia contemporanea.

Quali fossero le intenzioni di Luchino Visconti nel montare questo spettacolo a grande orchestra ci è permesso solo di supporlo. Alzando una o due ottave più su il sonoro e il movimento, già di per sé considerevoli, del dramma, egli probabilmente intendeva renderne evidenti, senza possibilità di equivoci, le punte polemiche. Ma le vie della Provvidenza sono, anche a teatro, molte e misteriose e, sia per il fatto che l’equivoco era già nel lavoro di Miller, sia che il frastuono aggiuntovi da Visconti ha finito per accrescere nello spettatore la confusione ideologica, è accaduto che per raggiungere la propaganda il regista è arrivato allo spettacolo nudo e crudo. Che non è, date le circostanze, un guadagno da poco, come ha dimostrato il successo innegabile della rappresentazione.

Perché occorre subito dire che la produzione era semplicemente magnifica per dovizia e gusto di mezzi, per la grandiosità e il rigore documentario delle scene e la eccellenza degli attori. E non parliamo solo dei principali, la Brignone che è stata, di tutti, la più “puritana”, secca e vessatoria nella prima parte e la più dolente ed eroica nella scena del carcere, e il Santuccio leale e fervido nella difesa del prossimo e in quella della sua anima e il Pilotto implacabile nel suo odioso legalismo, ma anche degli altri, il D’Angelo nella parte di un prete, inquisitore esoso dapprima e poi cristiano degno del Vangelo (la sua stupenda apparizione al primo atto è misteriosa e raccapricciante come il fantasma stesso del satanismo), e la Albertini demoniaca e la pia Benvenuti e in blocco tutte le invasate ragazze.

Sandro De Feo
(L’Espresso, 27 novembre 1955)