Con la sua opera borghese, il “conte rosso” Luchino Visconti si è precluso l’ingresso al P. C.

Roma, dicembre 1948

Domenica 29 novembre Palmiro Togliatti, il cappello calato sugli occhi, il bavero del soprabito rialzato, faceva la coda con tutti gli altri spettatori di diurne festive all’ingresso del teatro Eliseo, dove si dava Rosalinda (As you like it) di Shakespeare perché, giustamente, non aveva voluto pagare le quattordicimila lire a poltrona che chiedevano i borsari neri la mattina della prima negli atrii dei grandi alberghi romani. Lunedì mattina, dopo essersi discretamente informato da Armandino, il senatore Secchia fece chiedere da interposta persona all’on. Togliatti che cosa pensate dello spettacolo di Luchino Visconti, detto in certi ambienti comunisteggianti, in tono affettuoso, il “conte rosso”. Togliatti guardò l’intervistatore, comprese da parte di chi veniva la domanda e disse: « Come spettacolo appunto mi pare che tutto considerato lo si possa accettare, anzi dovrei lodarlo ».

« Ma », balbettò l’altro, « mi pare che sia piuttosto borghese…».

« E non viviamo forse in un paese borghese? In un’epoca borghese? Mostrare ai borghesi gli estremi cui li trascina il loro snobismo di raffinati decadenti è opera meritoria e anche rivoluzionaria ».

« Oggi ».

« Quale bisogno avrebbe domani in un paese proletario, in un’epoca di trionfo del proletariato, di dilettarsi di queste cose? ».

Il messo, soddisfatto e convinto, tornò da chi l’aveva mandato e riferendo puntualmente il colloquio vide che il senatore Secchia s’andava facendo scarlatto in volto e gli occhi chiari dietro le lenti mandavano lampi. Ma non fece parola; congedò con un gesto il fido e si diede a leggere un rapporto ricevuto sul conto del regista famoso.

In esso era detto all’incirca quanto verremo ora esponendo senza riferire ad ogni voltar di pagina le impressioni che la lettura causava nell’animo del senatore Secchia. Visconti di Modrone Luchino non è iscritto al P. C. I. sia perché non ne ha fatto mai domanda, sia perché difficilmente essa verrebbe accettata in quanto è noto il suo carattere isterico e si sospetta che anche i suoi atteggiamenti filocomunisti siano in gran parte snobistici. Dal cugino Marco Visconti, poeta, viene ironicamente chiamato, anche in pubblico, il Duchino. Non si conoscono donne che abbiano avuto rapporti con lui, né risulta che sia sposato. La sorella Uberta è moglie di certo Avanzo, cugino dei Rossellini (Renzo e Roberto). Si gira la parentela perché può essere utile ai fini di partito dato che egli, sebbene non regolarmente tesserato, ha sempre prontamente ubbidito a tutti i desideri espressi dalla segreteria. Lo si è constatato anche ultimamente quando ha scritturato, senza obiezioni di sorta, Paola Borboni, segnalatagli dal partito per la parte di Clitennestra nell’Oreste di Alfieri che egli si accinge a mettere in scena come terzo spettacolo dopo il lavoro di Tennessee Williams. Vero che la Borboni ha già recitato, nella sua trionfale carriera, in un’Orestiade allestita per l’O.N.D., ma allora faceva la parte di Elettra e non di Clitennestra. Comunque si dice ciò per documentare come sul non ancora compagno Luchino Visconti si possa contare nonostante certe abitudini, come quella di far servire da un cameriere in guanti bianchi gli aperitivi sulla spiaggia di Ischia agli ospiti della sua villa. Pare che abbia fatto impressione anche al compagno senatore Sereni il sapere che, nella villa di via Salaria che era del padre, uomo assai legato ai Savoia, Luchino abbia fatto togliere una finestra e incassare al suo posto una vetrina contenete oggetti preziosi e fragili, attraverso i quali egli può così contemplare il cielo capriccioso di Roma.

Circa l’opera sua di regista si nota che passa con disinvoltura dal teatro al cinema e che l’unica cosa di inquadrabile nell’ideologia del partito è il film La terra trema, il cui finale, tuttavia, di dubbio valore, ne sminuisce le premesse. Il denaro avuto dall’Universalia per la regia della Terra trema il Visconti lo ha impiegato per la messa in scena di Rosalinda (che è poi As you like it di Shakespeare riportato, dicono, alla fonte dalla quale venne tratto l’argomento, e cioè la Rosalynde di Lodge). Per questo lavoro il Visconti era in società con Salvo d’Angelo dell’Universalia, che però all’ultimo momento gli è venuto a mancare e quindi, dei 40 milioni di capitale previsto, non sono rimasti che i venti milioni del Visconti, che li ha messi assieme aggiungendo al compenso de La terra trema il ricavato della vendita di due poteri. Il Visconti può poi contare sulla sovvenzione della Presidenza del Consiglio per la sua compagnia, sovvenzione però che ammonta a 15 mila lire al giorno fino al 50° giorno di spettacolo, dopo di che cominciano i versamenti rateali per un importo totale che non supera i quattro, cinque milioni per ogni compagnia. Tutto sommato, per questo solo spettacolo, Visconti rimetterà almeno dodici milioni, le spese cioè dell’allestimento. I 78 costumi costano fino a 300 mila lire ciascuno perché sono tutti di autentica seta o taffetà o velluto e guarniti di autentica pelliccia. Per un costume si sono adoperati fino a 25 metri di seta. L’orchestrina è pagata in ragione di seimila lire al giorno ogni componente, esclusi gli straordinari.

Il pittore catalano Salvador Dalí, per la prima volta in Italia, ha ricevuto tre milioni per disegnare scene e i figurini. È uno strano tipo il pittore Dalí, con una faccia da gatto resa ironica dai baffetti molto divisi fra di loro. È un elemento molto borghese e pericoloso per l’influenza che può esercitare sui giovani compagni intellettuali.

Le musiche per lo spettacolo sono state tradotte da dischi di antichi autori inglesi, che aveva il Visconti, da un giovane violinista della R.A.I. dotato di molto talento musicale, Franco Tamponi, molto borghese anche lui e sospetto di indifferenza nei riguardi dei problemi politici e sociali.

Fin qui il rapporto. C’erano poi gli allegati che comprendevano, oltre i ritagli delle critiche dei giornali romani alla Rosalinda, anche un breve appunto, nel quale un ignoto dell'”ufficio intellettuali” aveva tracciato un paragone fra il ci devant Luchino Visconti di Modrone, con un duca tedesco del Settecento che sembra avesse le stesse sue velleità teatrali e mettesse in scena lavori per i quali non risparmiava sfarzo di costumi e di scene e di oggetti preziosi, curando che fin gli anelli dei comici fossero veri e vere le perle al collo delle attrici. Un “dilettante”, insomma, quale anche il Visconti, se pure di gran classe, veniva definito con marxistica spietatezza, dall’ignoto giudice.

Su quella definizione constò il senatore Secchia prima di guardare i ritagli dei giornali dai quali ricavò la convinzione che la messa in scena di Visconti costituisce, in quanto opera borghese concepita sulle teorie della scuola dai balletti dei russi bianchi, una grave deviazione ideologica, checché ne pensi il compagno Togliatti, e come tale non incoraggiabile, mentre non sarebbe stato possibile, con questi precedenti, accogliere l’autore in seno al partito.

Così la sorte di Luchino Visconti venne decisa nella mattinata di lunedì 30 novembre, proprio nel momento in cui egli apprendeva che nel pomeriggio della “prima” la famiglia del direttore del teatro Eliseo, armata di estintori, aveva evitato per poco che il teatro andasse in fiamme per l’incendio di alcuni veli di una scena.

Antonio Petrucci
(Oggi)