Milano, dicembre 1945. Una decina di anni fa, a proposito di Faulkner, cioè del più potente scrittore americano moderno, Emilio Cecchi parlò dell’America come di un paese vivente prima dell’incarnazione di Cristo. Certo il suo giudizio su quella ch’egli definiva un po’ sprezzantemente “isteria del benessere” oggi è da rivedere alla luce della magnifica prova data da quel popolo nel cataclisma che ha sconvolto il mondo, ma crediamo che non ci sia molto da mutare nel suo cauto atteggiamento di fronte a certe espressioni artistiche americane. Specialmente di fronte a quelle che ci giungono circonfuse dell’aureola di successi strabilianti. Il successo non c’incanta mai perché non è mai indice sicuro di valore. Se lo fosse, gli stranieri dovrebbero considerare Giovacchino Forzano il più grande drammaturgo italiano dell’ultimo mezzo secolo e Pitigrilli il maggiore narratore. Perciò ci lascia del tutto indifferente il fatto che La via del tabacco di Caldwell e Kirkland, dalla all’Olimpia dalla compagnia di Laura Adani, abbia avuto in America più di duemila repliche.
L’esclusione del termine solenne dell’incarnazione di Cristo sarebbe, per questa commedia, troppo ingenua e generosamente indeterminata. Perché prima di Cristo ci fu la Grecia di Platone e di Eschilo, ci furono la civiltà indiana e quella cinese, dove il dualismo tra bene e male, e il senso morale che ne deriva, erano in vario modo e misura cardine della vita individuale e collettiva. Né serve granché, a definire e legittimare in qualche modo il mondo di Caldwell, il riferirsi a uno stato di pagani o di barbarie. Proprio Freud, che troppo spesso, e troppo a sproposito, vien citato a convalidare sul piano artistico il soggiacere degli uomini agli istinti, proprio Freud ha rintracciato nello stato di barbarie il travaglio della coscienza; e, pur spiegando a modo suo le cause, le manifestazioni, il meccanismo del rimorso, non ha nemmeno tentato di indagare la prima germinazione del senso della colpa, riconoscendola così implicitamente come connaturale all’essenza umana. E difatti è quel che distingue l’uomo dall’animale.
Ora è proprio il senso della colpa, cioè un elementare segno distintivo di umanità, che non riusciamo a ravvisare nei personaggi della Via del tabacco. Voi saprete chi sono questi personaggi. Avrete visto o sentito dire di un figlio che insulta continuamente padre e madre; di una ragazza in calore che s’abbandona al marito della sorella sotto gli occhi divertiti o incuranti del fratello e dei genitori; di un padre che guarda con allegra e loquace bramosia una ragazza che ritiene figlia sua e la donna che suo figlio ha sposata; di una madre che, investita da un’automobile guidata da suo figlio, muore sotto lo sguardo indifferente di lui e alla quale la figlia toglie subito le scarpe per correre più agevolmente dall’unico uomo che per un attimo ha visto in lei una femmina; di una nonna che si trascina a quattro zampe senza aprire mai bocca e che nessuno si cura di cercare quando la si suppone morta in qualche angolo della casa. E avrete sentito parlare di una specie di predicatrice, ex prostituta, che dovrebbe determinare un lievito religioso, ma nella quale la religiosità si risolve in elemento comico; e di certi eleganti e ben pasciuti borghesi che dovrebbero immettere una antitesi sociale.
Ma tutti questi personaggi mancano del minimo necessario a stabilire rapporti di coscienza, e senza tali rapporti non esiste né può esistere poesia drammatica.
S’è parlato, per questa commedia, di verismo. A noi sembra piuttosto marcia di letteratura, di retorica: della retorica del laido, del triviale, del maleodorante, la quale sta prendendo il posto della retorica dei bei sentimenti che dominava sino a ieri. Ma in sede poetica l’una e l’altra si equivalgono.
La via del tabacco, che fu accolta da consensi e dissensi ugualmente tenaci, ebbe in Luchino Visconti un regista intelligente e accurato, e in Laura Adani, in Renata Seripa, nel Calindri, nel Carraro, nel Gassman e nella Ferrari interpreti valentissimi.
Giuseppe Lanza