Zoo di vetro, novità di Tennessee Williams, annoda con sottilissimi legami la socialità americana all’intimismo e crepuscolarismo europeo: la rappresentazione di un certo ceto (quella mortificata piccola borghesia della produzione standard, una sorta di proletariato reso formalmente più decente dall’organizzazione in serie) non fiorisce più di rapprese proteste e di programmatiche rivendicazioni, ma ripiega verso l’evasione psicologica e la pietosa contemplazione di un fallimento. L’ambiente familiare è costituito dalla madre, non ancora dimentica della vedovanza precoce e della non goduta giovinezza: romantica, un poco squilibrata nei frequenti passaggi dall’ira, alla gioia, allo scoramento, su un piano di domestica superficialità; da un figlio, impiegato in un magazzino, scontento, misantropo, pronto, appena può, a disertare la casa per infilarsi in un cinematografo: coltiva in segreto il sogno di impiegarsi in una società di navigazione e di ottenere un imbarco; e da una figlia, una diafana zoppina, vittima per la sua sciagura fisica di un complesso di inferiorità che ne fa una timida schiava e la costringe a trasferire la sua ricchezza d’affetti, infantilmente candidi e trasognati, su una collezione di animali in vetro: simbolo della sua fragilità e della sua trasparenza, con esclusione, almeno apparentemente, di ogni riferimento psicoanalitico.

Preoccupata per la sorte della zoppina, che vorrebbe accasare con un bravo giovane, il quale sia anche un sostegno per la famiglia, la madre prega il figlio di condurre in casa qualche compagno d’ufficio; e il giovanotto, pur riluttando a questi femminili maneggi, invita a pranzo un collega del magazzino: un giovane di pelo rosso, già inaridito dalle ambizioni della carriera, irto di luoghi comuni e di presunzione. L’ideale, sotto un certo aspetto, di una madre piccolo borghese, che voglia dar marito a sua figlia. Il caso vuole che la scelta del fratello sia caduta su un ex compagno di scuola della fanciulla, che ebbe per lui un timido amore liceale; e il giovanotto, che si dà arie da società, recita per una sera la parte del corteggiatore, fino ad accendere la fantasia della desolata zoppina. Ma dopo averla baciata, sul punto di dichiarare apertamente i suoi sentimenti, fa intendere di essere già fidanzato e di non poter concedere più di quanto, per il bene della fanciulla, ha già generosamente concesso. L’inattesa rivelazione e il conseguente addio del giovanotto spengono l’animazione un poco febbrile che s’era accesa per una sera nella famiglia. La fanciulla torna alla sua sognante solitudine, la madre si dispera per l’inganno e per l’illusione caduta. Il figlio, cui è affidata, oltre che la funzione di attore, anche quella di narratore in prima persona per raccordare i tempi del racconto, informa di aver abbandonato la casa dopo codesto incidente, d’aver ottenuto un posto nell’ufficio della società di navigazione, e d’essere tuttora imbarcato in giro per il mondo.

Questa tecnica particolare, che accompagna il dramma dall’inizio alla conclusione, contribuisce più d’ogni altro elemento a proiettare la vicenda nel poetico fondo della memoria, in cui si vivono esperienze fallite come i relitti di un naufragio; procedimento non nuovo certamente, ma utile in questo caso a fondere in una tonalità costante (non possiamo parlare di stile) ciò che, considerato in se stesso, non si solleva dalla risaputa constatazione della vita grigia e uniforme in cui si consumano senza speranza famiglie segnate dal destino. L’illusione della felicità le sfiora, le desta per un istante, per abbandonarle ancor più grigie e scorate alla loro scialba esistenza.

In un teatro simile inutile parlare di caratteri, di costruzione, di idee; non resta che cogliere la fugace vibrazione di un motivo, che scaturisce dal colore e dall’atmosfera assai più che dal gramo disegno dei personaggi. E dunque fatica particolarmente adatta a un regista come Visconti, avvezzo a passar le idee nel filtro della sensibilità; tutto ciò che è clima, colore, emozione è affar suo; e in Zoo di vetro, dove la resistenza del testo è più debole e si spiega volentieri a interpretazioni tonali, il gioco è di convincente efficacia. La costruzione della scena, di per se stessa già costituisce spettacolo: la casa è mostrata in sezione, con una parete trasparente che a seconda del gioco delle luci, mostra l’interno o chiude una facciata; a sinistra dello spettatore la costruzione continua con l’esterno di un cortile soffocato. al di là del quale splendono i lumi di un tabarin. Il contrasto fra il grigiore dell’interno e codesto appello all’evasione è evidente; e l’idea di mostrare il luogo dell’azione inquadrato in un ambiente che lo contiene e s’espande altrove, crea un distacco visivo che introduce al poetico distacco con cui l’autore considera la vicenda. La recitazione è un poco ineguale: dalla esuberanza scenica della Pavlova (la madre) che riempie della sua presenza con una infinita ricchezza di variazioni lo spazio domestico, si passa alla estatica fragilità della Morelli (la figlia), al polemico realismo di Stoppa (il figlio), alla esteriore convenzionalità di De Lullo (l’amico); viva come sempre sotto la direzione di Visconti, l’interpretazione tenderebbe a rompere gli argini dello spazio che le è assegnato, se i primi piani non fossero tenuti a freno e ripresi per i capelli dalla proporzione della scena e dalle valvole di sicurezza, costituite appunto dalle luci, dagli accenni di esterno e dal commento musicale, che diluisce come una colonna sonora, certe punte e asprezze del dialogo, mettendo in evidenza quanto è per avviarsi nella direzione di un musicale abbandono.

Giorno Prosperi
(tratto da Sipario)