L’incontro di Luchino Visconti con l’arte grandissima di Cechov segnò, tre anni or sono, il punto di arrivo più alto di quel processo verso il realismo che da più sintomi appariva in corso — sia pure faticosamente — nel teatro italiano. Nella memorabile rappresentazione delle Tre sorelle l’arte del regista  e degli attori da lui guidati, liberatasi finalmente da ogni diversivo fantastico, da ogni compromesso esteriore e spettacolare, raggiunse quella umana, profonda, assoluta semplicità che sola riesce a disperdere ogni velario tra pubblico e scena e consente un dibattito aperto e compiuto con la vita di tutti e di ciascuno. Il poeta della desolazione e del presentimento, degli alti ideali e della meschina realtà, portava al teatro italiano, attraverso la severa meditazione della sua personalità più dotata, una dimensione ad esso inconsueta eppure, in quest’epoca di disgregazione tragica e d’infinita speranza, insostituibile: i silenzi e i sussulti, l’aria della vita, che scorre distruggendo e creando, covando nel groviglio delle proprie contraddizioni il germe del mondo migliore che nasce.

Gli stessi interpreti — Rina Morelli, Paolo Stoppa e Marcello Mastroianni — e lo stesso regista riconducono ora sulle scene dell’Eliseo la voce di Cechov. Zio Vania, sia detto subito, non esprime con la medesima solenne misura delle Tre sorelle lo spazio immenso che l’arte di Cechov abbraccia. Una poesia più rozza e disperata si sprigiona dai gridi e dai silenzi di queste « scene della vita di campagna ». I tratti essenziali del mondo cechoviano, così monocorde per natura, sono bensì sempre rigorosamente uguali a se stessi; ma si avverte qui più che nei due capolavori successivi il lungo travaglio speso per cercare la definizione esatta, si sente l’urto della pietà offesa, il peso del dolore non rassegnato, il pianto della speranza senza volto. Lo avvertì Tolstoi, che nel suo diario, sotto la data 27 gennaio 1900, annota: « Sono andato a vedere Zio Vania e mi sono indignato » (un giornalista  attribuì persino al vecchio Jàsnaia Poliàna l’accusa di « deficienza morale » contro Cechov); lo avvertì Gorki, che in una bellissima lettera del novembre 1898 (la si può leggere ora nella traduzione del carteggio Gorki-Cechov uscita recentemente per le edizioni di Rinascita), mescola alle espressioni di entusiasmo e commozione una personale insofferenza: « Mi pare… che voi trattiate gli uomini con la freddezza del demonio ».

Da dove veniva questa sensazione? Non poteva essere, da parte del maestro insuperabile del grande realismo russo e del futuro educatore del realismo socialista, il segno di una riserva di fronte alla severità del giudizio morale di Cechov sulla società russa del suo tempo. L’angolo di campagna dove ammuffiscono gli ideali dei personaggi di Zio Vania è, come la provincia di guarnigione delle Tre sorelle, il simbolo minuzioso e ossessivo di un mondo che muore. Zio Vania e Sonia hanno sacrificato la loro mite giovinezza al mito dell’uomo di cultura, cui essi credevano di spianare la strada con la loro umile dedizione: e Serebriakov ora si rivela per un tronfio e inutile arcade. Hanno sognato l’amore e la bellezza, e non trovano sul loro cammino neppure la pietà. Anche la ribellione è inutile, peggio che inutile, grottesca, come i colpi di pistola che zio Vania esplode contro Serebriakov. Tutti sono farfalle prese nella luce che arde spietata. Anche Astrov, il medico ubriacone, patisce dello stesso male: la vita che fugge e sulla quale non puoi far nulla. Ma a lui, più che all’indeterminato aldilà in cui si rifugia Sonia nel suo lungo pianto finale, è affidata la ricerca dell’autore; a lui, amico della natura, piantatore di giovani foreste che il progresso distruggerà, ardore deluso di vita, la desolata domanda che si ripeterà in ogni dramma di Cechov: « Che penseranno gli uomini, che vivranno ben più felici tra due o trecento anni, di noi che col nostro silenzio e la nostra impotenza abbiamo ciononostante spianato loro la via? Si ricorderanno ancora di noi? ».

Ecco, Cechov ha già messo il dito sulla piaga. Ma in Zio Vania, forse, ancora qua e là procede a tentoni, e indugia a frugare, sì che il dolore del bisturi stenta a risolversi nel taglio risolutore. Meno tragico dei due capolavori successivi — Tre sorelle e Giardino dei ciliegi — pure duole di più. Si vorrebbe dar ragione a Gorki e Tolstoi, ma rovesciarne il giudizio: il medico ha ancora concesso troppo alla pietà, per questo la piaga spasima e non ti consente di vedere la promessa di salute che pure è contenuta nella incisione. Ma questo è solo un aspetto della reazione provocata dal messaggio cechoviano, all’atto in cui coglieva il punto centrale.

Erano in gioco infatti gli ideali dell’intellighenzia russa, che in effetti erano ben più che la sorte di uno strato di intellettuali, ma si identificavano con l’evoluzione di un pensiero democratico avanzatissimo, avvenuta lungo tutto il corso del secolo. Cechov, la cui dura e minuziosa analisi nulla ha del positivismo, partecipa senza dubbio di tutti quegli ideali, di quella sognante e generosa « anima russa »; ma proprio perché i suoi personaggi ne hanno fatto sostanza della propria vita, egli deve smentirli coi fatti, per poterne conservare intatta la potenza creatrice anche dopo l’inevitabile crollo di una società che non sa più servirsene. È la crisi storica — riflessa, senza bisogno di affrontarla in astratto, nei destini singoli, nella vita più umile e derelitta — nell’ideologia a base contadina, populista. E com’è nella storia di ogni utopismo, che spegne e ritorce tutto il proprio lievito fecondo appena la scienza delle forze reali in cammino lo ha soppiantato, così ormai, vent’anni prima dell’Ottobre, non è più tempo di miraggi, e la solitudine ingoia chi l’ha generata.

Ecco la frattura determinata da Cechov; ecco la sua grandezza. Per questo, oggi, portare sulla scena la sua parola può avere un solo significato valido: tentare di rispondere noi — uomini per tanti aspetti suoi contemporanei ma per altri veramente « quelli che verranno tra due o trecento anni » — all’interrogativo dei suoi personaggi. In questa direzione si è mosso Visconti anche per Zio Vania, anche se per farlo ha dovuto in parte scavalcare le stesse indicazioni dell’autore. La contraddizione più seria stava, secondo me, nel protagonista, al quale Stoppa concedeva toni troppo esasperati, silenzi troppo gremiti di pianto rispetto alle intenzioni dell’autore: ma è appunto qui l’asprezza di Zio Vania per noi posteri, il suo spietato grottesco. Mentre ci affidiamo alla ineffabile rassegnazione della Morelli nelle vesti di Sonia, agli impeti repressi dello straordinario Mastroianni (un attore ormai maturo, superiore a tutti quelli della sua generazione) nella parte di Astrov, per trovare la risposta.

Sì. Nulla è andato perduto in quelle rinunce, di quelle sofferenze, di quei miraggi. Un mondo è morto che doveva morire. Ma nel mondo che lo ha sostituito, altri uomini piantano foreste che il progresso non distruggerà; e si ricordano, nella cultura come nell’inesauribile idealismo di ogni aspetto della vita quotidiana, di coloro che hanno portato il peso degli anni oscuri. La forza nuova che ha aperto il cammino alla storia ha raccolto l’eredità umana di tutti coloro che l’hanno preceduta.

Bruno Schachem
Roma, 24 dicembre 1955