Adesso che il « mio » Ludwig appare sugli schermi italiani, posso parlare di quest’opera come se avessi superato una catena montuosa irta di ostacoli, di difficoltà, una dura fatica. Volgendo indietro lo sguardo al cammino percorso, sento di poter valutare il film con animo tranquillo e serenità. Ebbene, oggi appunto, in queste condizioni di spirito, vedo che ciò che ho fatto rispecchia precisamente quello che volevo fare.

Per me, Ludwig ha rappresentato veramente uno sfogo d’anima e di mente, contiene soltanto le cose che intendevo dire e che appartengono alla figura di Luigi II di Baviera. Un personaggio che ho seguito nell’arco della sua breve intensa esistenza con una biografia un po’ personale, neppure attenendomi storicamente a un arco consequenziale, ma disegnandolo per appunti che tuttavia concorrono ad offrire un ritratto compiuto di quel sovrano: un personaggio sofferente in lotta contro la realtà e contro se stesso.

Ludwig è, dunque, una biografia scritta in immagini, attraverso appunti disordinati e liberi, senza una linea di racconto coerente. Ne è nato un film proprio quale io mi proponevo, che si sviluppa per larghe annotazioni, dal quale spero tuttavia che il carattere del personaggio, così delineato in ordinato disordine sia ugualmente balzato nel compiuto rilievo della sua vivezza.

La fatica è stata molto dura e personalmente l’ho pagata anche con l’incidente che mi ha colpito, dovuto a un eccesso di strapazzo. Ma ora sento vibrare in questo film tanti tormenti che io stesso provo e che dalle immagini dello schermo risaltano come dalle pagine di un romanzo.

Voglio aggiungere che ho avuto la fortuna di trovare degli interpreti straordinari, i quali mi hanno seguito sempre alla perfezione. Primo, fra tutti, Helmut Berger: raramente nella mia carriera ho trovato un giovane di ventisei anni che, dalla prima all’ultima inquadratura della pellicola, occupa e domina lo schermo, impersonando Ludwig come se il personaggio uscisse vivo dalle pagine di un diario narrato in terza persona, un diario raccontato appunto dall’attore stesso. Una prova che io considero straordinaria.

Resta ora da vedere se in Ludwig l’opera d’arte si è realizzata pienamente o meno. Su questo punto, il giudizio non spetta a me, ma agli altri. Io spero di sì. Mi sembra di non aver tralasciato nulla di quanto pensavo e desideravo esprimere: ma certamente non ci si può illudere — come sempre avviene — di aver esaurito tutto quel che si poteva e si voleva dire su un personaggio, per di più così complesso. Perché, in realtà, per quanto accuratamente si scavi in una figura o in un’epoca, in un’anima e in un viluppo di sentimenti, mai si arriva completamente ad esplorarli fino in fondo. Rimangono sempre altre cose da dire che affioreranno nell’avvenire in un altro film, così come in Ludwig sono utilizzati sedimenti rimasti dentro di me da La caduta degli dei e da Morte a Venezia, due mie opere recenti. Sono elementi che trovano sempre una collocazione futura, per un autore cinematografico, come ritengo avvenga per gli scrittori.

Sono soddisfatto dell’opera appena compiuta? Se mi pongo questo interrogativo, sinceramente non posso ancora rispondere perché un autore non è completamente soddisfatto fino a quando la sua creatura artistica non ha preso la sua strada e cammina, forte e sicura, con le sue gambe.

Io spero che Ludwig incontri nel pubblico lo stesso favore che ha accolto gli altri due precedenti film che impropriamente, qualcuno chiamò della trilogia germanica, per l’origine dell’argomento. Una trilogia che potrebbe diventare una tetralogia con la realizzazione del progetto, che da tempo coltivo, di portare sullo schermo quell’opera affascinante che è La montagna incantata di Thomas Mann.

Luchino Visconti 
Marzo 1973