La raffinata trasposizione cinematografica, dovuta a Luchino Visconti, del famoso racconto La morte a Venezia accentua forse le tentazioni melodrammatiche e sposta sui sensi quello che è soprattutto un dramma della mente

C’è un breve saggio di Thomas Mann sul cinema, del 1928: «… il mio interesse per questo fenomeno sociale è cresciuto fino ad un vero e proprio trasporto, anzi ha acquistato il carattere di una vera passione. Io vado moltissimo al cinema e non mi sazio, per ore intere, di quel divertimento visivo condito dalla musica… ». Sembra l’anticipazione dei valori di Morte a Venezia, il film che Luchino Visconti, giunto alla piena maturità dei propri mezzi espressivi, ha tratto dal perfetto racconto di Thomas Mann: che il grande scrittore aveva  salvato, nelle sue componenti filosofiche, estetiche e letterarie, proprio nell’esito miracolosamente casto della pagina, nella tensione metafisica, nella composta visione classica, nella proiezione simbolica dei fatti, in equilibrio con i pensieri, le memorie, le fantasie.

S’è discusso molto sull’aspetto decadentistico dell’opera di Mann: La morte a Venezia, è uno dei testi più indenni, nei quali è più vittorioso l’impegno dello scrittore nel fissare una forma estetica, che valga anche come catarsi, purificazione, che vinca la ribellione dei contenuti romantici. La lotta è fra il vero e il falso (c’è già nelle prime pagine, e nelle prime immagini, con l’apparizione del finto giovane sul battello, macabra anticipazione della morte), fra giovinezza e vecchiezza, fra bellezza e sgradevolezza, degradazione, corruzione. Bellezza come mito, che,  avverte Mann: « è il fondamento della vita:  lo schema eterno, la formula sacra alla quale la vita si modella riproducendone la vicenda dell’inconscio… Si conquista così la visione di una superiore verità che si rivela nel reale, la scienza sorridente dell’eterno, dell’autentico, del perenne…». E nel finale, Mann cita diffusamente il Platone del Fedro: « Giacché la bellezza, considera, la bellezza soltanto è divina e visibile, a un tempo, e perciò essa è la via del sensibile…».

L’eco di questa problematica si raccoglie nel film in alcuni flashbacks per vero un po’ troppo compressi e didascalici (nonostante che la pellicola scorra per più di due ore), e non vale a dissolvere alcune perplessità di fondo, sul tipo di lettura realizzato da Visconti e dai suoi collaboratori. Intanto, l’aver convertito l’illustre scrittore Gustav von Aschenbach, in un musicista dichiaratamente ispirato alla figura di Gustav Mahler (nella cui musica, soprattutto l’Adagietto della Quinta sinfonia, tutto il film è immerso), non esaspera, contro l’impianto classico che s’è precisato, le tentazioni e le insidie (non si fraintenda) melodrammatiche? Non sposta un po’ troppo sui sensi, quello ch’è, in essenza, un dramma della mente?

Mann, nella pagina estrema del racconto, scrive che Tadzio (il meraviglioso efebo, inseguito con gli sguardi da Aschenbach, per le calli corrose dal colera, sull’arenile biondo del Lido veneziano) « voltò deliziosamente il busto »: il che fa pensare ad una statua, ai miti mediterranei, appunto, lungamente vagheggiati da tutta una cultura nordica. E, proprio nel film, il ragazzo, fra i barbagli di sole, assume, per un attimo, la perfezione del David michelangiolesco. Prima invece ha richiamato, piuttosto, il sorriso della Gioconda leonardesca, o le grazie botticelliane; insinua un sentimento di ambiguità, sembra partecipare dei due sessi, mentre dovrebbe sublimarli ambedue. Perciò, anche la scelta dello svedese Bjorn Andresen, pur così sensibile ai giochi più sottili, non persuade completamente.

Per le stesse ragioni, anche il bravissimo Dirk Bogarde, ci è parso un po’ troppo esteriorizzato, incline all’espressionismo, eccessivamente febbrile. Il tono giusto lo si coglie, fra personaggio e ambiente, nelle scene sulla spiaggia del grande albergo (Visconti, con il suo infallibile occhio rievocante, ha ricomposto, favolosamente e realisticamente insieme, una stagione perduta del Novecento più felice e più minacciato); e dal barbiere che, con creme e belletti, calcifica il volto del musicista, sembra prepararlo per l’appuntamento imminente con la morte.

Memorabile (si ripensa all’avvio di Senso) è Venezia, spolverata di cenere azzurra, scossa dai falò dell’epidemia, macchiata dai disinfettanti, serena in riva al mare, con le meduse galleggianti degli ombrelloni. E qui bisogna registrare i nomi di Ferdinando Scarfiotti, scenografo, di Piero Tosi, costumista, di Pasquale De Santis, fotografo.

Fra gli interpreti, in un concerto d’alta classe, spiccano l’elegantissima Silvana Mangano, Romolo Valli, un verissimo direttore d’albergo, Franco Fabrizi, Nora Ricci, Antonio Apicella.

Un film, insomma, da vedere e da discutere; che ha, certo, il diritto d’essere giudicato autonomamente, ma che accresce il suo interesse nel confronto con il testo di Mann che l’ha ispirato. Si può aggiungere che i rischi di Visconti (proprio per i pregi e le debolezze del linguaggio filmico), erano, forse, più grandi di quelli risolti fermamente da Mann sulla pagina.

Alberico Sala
(Corriere d’informazione, 6-7- marzo 1971)