Milano, 1° ottobre 1951. Che cosa succede a Venezia? A suo tempo era stato elaborato un programma della manifestazione, che aveva avuto la regolare approvazione degli organi competenti. Erano stati presi i conseguenti impegni. Ma ad un certo momento sorse un ente di carattere privato, Il Centro Internazionale delle Arti e del Costume, il quale, come si è potuto leggere su manifesti ed annunzi, offrì all’Ente della Biennale uno spettacolo o uno spicchio di spettacolo goldoniano e assicurò la presenza di una compagnia francese a Venezia nel mese di settembre. Allora il Festival del Teatro disdisse i suoi impegni con una compagnia francese, che era stata già invitata, ritenendone superflua la partecipazione, ed accolse l’offerta! In tal modo, mentre da una parte un numero del programma preventivamente fissato veniva a cadere, l’Ente della Biennale, della quale il Festival del Teatro è emanazione, veniva ad accettare l’offerta di un privato, adottando una prassi fino al momento presente sconosciuta agli enti pubblici. E come se questo non bastasse, ad un certo momento, essendo stato rifiutato il visto d’entrata al Berliner Ensemble, è venuto a cadere un altro punto essenziale del programma del Festival, che già da vario tempo comprendeva la rappresentazione di Mutter Courage di Bertolt Brecht. Ed in seguito al rifiuto del visto d’entrata al Berliner Ensemble, il regista Luchino Visconti, impegnato a dirigere gli ultimi due spettacoli del Festival, dichiarava di riservarsi di decidere se partecipare o meno alla manifestazione.
Se il complesso del Berliner Ensemble non potrà venire in Italia, come oramai è accertato, e se il regista Luchino Visconti in segno di protesta si rifiuterà di presentare gli spettacoli da lui allestiti, il Festival Internazionale del Teatro, organizzato dall’Ente della Biennale, si ridurrà ai due spettacoli spagnoli del Teatro Maria Guerrero di Madrid e ad uno spettacolo goldoniano in parte offerto dal Centro Internazionale delle Arti e del Costume.
Anche in questa situazione possono riscontrarsi agevolmente i limiti dell’autolesionismo, tanto più che corre la voce, non sappiamo quanto fondata, che il Centro Internazionale delle Arti e del Costume, il quale, ripetiamo, è un ente privato, intenderebbe assorbire il Festival Internazionale del Teatro di prosa, assumendosene tutte le spese. La notizia è sbalorditiva: ma potrebbe darle credito il fatto che lo stesso Centro, sia pure senza estromettere completamente la Biennale, si è già assunto il patrocinio e l’organizzazione di un’altra sua manifestazione, il Festival Internazionale dell’Alta Moda e del Costume nel Film. Dice un antico proverbio che una ciliegia tira l’altra.
(Teatro Scenario, Rassegna Quindicinale degli Spettacoli a cura dell’Istituto del Dramma Italiano, Milano)
Torino, 1° ottobre 1951. L’Unità del 18 settembre ha pubblicato il comunicato del Ministero degli Esteri sulla proibizione data al Festival della prosa di Venezia (Biennale) di far recitare — come era da mesi in programma — la Compagnia tedesca del Berliner Ensemble ed il dramma di Bertolt Brecht: Madre coraggio e i suoi figli. Il comunicato è questo:
« A proposito della notizia pubblicata da un giornale romano circa il rifiuto del visto alla Compagnia tedesca di Berlino-Est di recarsi a Venezia per rappresentavi il dramma di Brecht, Mutter Courage, viene precisato da fonte autorizzata che effettivamente le autorità competenti hanno negato il visto d’ingresso in Italia al complesso del Berliner Ensemble ».
Il giornale fa seguire un commento molto energico a tale conferma e dice di aver interrogato in proposito Luchino Visconti, e che il regista — giustamente sdegnato — ha risposto che andava personalmente a Venezia a chiedere schiarimenti e di non essere sicuro di mantenere l’impegno (come da programma) di presentare a Venezia il dramma di Miller, Morte di un commesso viaggiatore, né di inscenare la nuova commedia di Diego Fabbri: Il seduttore.
Ignoriamo, naturalmente (almeno al momento che scriviamo), le ragioni di un divieto che può, quanto meno, sconcertare e rendere perplessi tutti coloro che come noi — non interessandosi affatto di politica — vedono negli scambi culturali tra Nazioni non altro che un segno di raggiunto livello di civiltà. Non si può essere parziali e dare ospitalità solo ai francesi e agli spagnoli, che hanno già recitato al Festival della prosa. Se le “autorità competenti” hanno negato il visto di entrata in Italia alla Compagnia, dovrebbero dire anche il perché del divieto. Non si tratta di un segreto di Stato; il programma veneziano è stato pubblicato dal mese di giugno, e poiché in questo tempo “qualche cosa deve essere accaduto” siano rese note le ragioni della proibizione di un avvenimento artistico — questo è indubbio — del quale Palazzo Chigi ha creduto di doverci privare.
Lo stesso giorno 18 settembre, l’on. Giannini, durante una seduta alla Camera — riferiscono i giornali — « richiamandosi al divieto d’ingresso in Italia alla Compagnia tedesca del Berliner Ensemble, pur affermando il principio di libertà di scambi culturali tra le Nazioni, ha deplorato che il regista Luchino Visconti, “comunista dei Parioli”, abbia minacciato di sabotare il Festival veneziano astenendosi dal parteciparvi in seguito all’incidente con la Compagnia tedesca ». (L’intervento di Giannini aveva lo scopo di mitigare una piccante espressione da lui avuta nella seduta antimeridiana contro lo stesso regista durante il discorso dell’on. Ariosto). Quindi Giannini, rivolto all’on. Andreotti, ha detto: « Se io fosse in lei farei in modo che tale regista fosse impossibilitato a compiere qualsiasi lavoro. Egli, che si dice comunista e come tale è onorato da Togliatti, ha importato in Italia lavori americani in cui sono raffigurati gli aspetti più bassi dell’umanità, incoraggiando la più efferata corruzione contro i princìpi stessi del partito in cui milita ».
Dunque, il nostro vecchio e caro amico Guglielmo Giannini, nella sua qualità di deputato, ha affermato alla Camera il principio della libertà di scambi culturali tra le Nazioni. Fatto ciò (e glie ne siamo molto grati), avrebbe potuto fermarsi. Ma Giannini ha sempre delle parole in più che guastano tutto, e quelle dette, nientemeno, alla Camera così aspre e villane per il maggior regista che abbia l’Italia, non gli fanno onore come uomo di teatro. Avrebbe potuto anche dirle se fosse soltanto un uomo politico, ma egli è prima di tutto e soprattutto un teatrante; che della politica se ne infischia altamente quando non gli serve e non gli fa comodo. Se, come speriamo davvero, Luchino — per protesta non soltanto sua, si capisce, ma di tutti i teatranti italiani liberi e disinteressati — si asterrà davvero di partecipare e far partecipare la sua Compagnia al Festival della prosa di Venezia, glie ne saremo infinitamente grati. Avrà reso un servizio alla libera cultura italiana.
(il Dramma)