L’interprete di Notti bianche divide le sue cure fra il cinema e la famiglia, sforzandosi di non concedere niente al divismo.
L’attore cinematografico “arrivato” è potenzialmente un divo. A forza di ricevere lettere da ragazze sconosciute, di essere additato per la strada, finisce per cedere alla vanità, col credersi veramente un semidio del tempo moderno. Pochi attori di successo ho incontrato che sfuggissero a questa illusione; gli altri o la recavano visibilmente scritta nella loro fronte, mentre camminavano col passo di chi viva fra le nubi, oppure, se erano più intelligenti, riuscivano a dissimularla dietro il tratto cortese, cercando di comportarsi come dei gentiluomini inglesi.
Marcello Mastroianni non appartiene a questa categoria. Anche Folco Lulli, per esempio, ne è fuori, ma egli non incarna il “bello”, bensì il “vilain”, l’attore e il caratterista del quale si apprezzano le qualità d’interpretazione, e della cui figura pletorica e sanguigna il mito rifugge. Mastroianni, invece, per le parti di “amoroso” sostenute in numerosi film potrebbe aspirare compiacentemente a un prestigio divistico. Al contrario il protagonista delle Notti bianche pone un’attenzione preliminare — appena si parla con lui — nell’eliminare ogni equivoco, nel dichiarare di essere e di voler restare semplicemente un attore. E il suo modo di comportarsi è in armonia con questa dichiarata vocazione: fuma le sigarette «esportazione», si dichiara amante della buona tavola, siede a mensa con evidente piacere, si mette volentieri a discutere dell’educazione da dare alla figlia di sei anni. Un borghese loquace e disinvolto, contento dell’esistenza in famiglia, che considera come ubbie le infatuazioni della ragazze per gli attori, lui compreso.
Una simile dichiarata inclinazione verso la vita semplice, rafforzata dall’avversione per le serate pubbliche o a carattere mondano, non distrugge in Mastroianni l’amore per il cinema. « In casa nostra — dice la moglie dell’attore — non si parla altro che di cinema, da mattina e sera. Una vera ossessione. Per sfuggirvi, qualche volta io sono costretta ad uscire di casa, ed allora, strano a dirsi, mi rifugio al cinema. Almeno vedo dei film invece di sentirne parlare ».
« Gli attori di cinema —dichiara Mastroianni — sono una strana categoria , che il pubblico invidia, ma che, se hanno un po’ di discernimento, cominciano presto col sentirsi umiliati da ciò che sono costretti a fare. Intanto su cento film ce n’è uno solo che offra dei personaggi veri e propri. Il resto sono figure vaghe, sforzate, improbabili, talmente generiche che l’attore ci si sente dentro come in un vestito eccessivamente largo. Un attore invece è felice quando può partecipare a un film d’arte, nel quale il suo personaggio sia studiato e richieda una continua sorveglianza creativa. Allora egli non si limita a ripetere dei gesti che il regista chiede, ma partecipa e collabora profondamente, e gliene resta dentro l’esperienza. Per esempio la mia collaborazione con Visconti per Le notti bianche, oltre ai precedenti teatrali con Visconti, mi ha reso capace di esprimere delle sfumature dei sentimenti alle quali da solo non sarei arrivato. Tuttavia una simile maturazione non è sempre utile ai fini della carriera. Prendiamo il mio esempio. Dopo Notti bianche dovevo interpretare Pane amore e cha cha cha: me ne sono sentito incapace. Ebbene, ho fatto bene o male? Non saprei dirlo. Può darsi che proprio i film come Pane e amore consolidano la fama di un artista e siano necessari alla sua carriera. D’altra parte per interpretarli con convinzione bisogna credere in essi, non porsi a un livello intellettualmente superiore, altrimenti accadrà che, non credendo al personaggio, lo si reciti con distacco, senza convinzione. Questo sia chiama snobbare il personaggio, e il pubblico se ne accorge, è fatale. Guardiamo l’esempio di Ray Milland, attore meraviglioso in Giorni perduti, poi mediocre in alcuni western nei quali appariva distaccato e distratto. Non è che Ray Milland da Giorni perduti in poi sia peggiorato come interprete. È che, divenuto un attore intelligente, non poteva più credere agli sceriffi e alle pistole ».
Marcello Mastroianni confidava questi pensieri il pomeriggio precedente alla prima di un suo film, Le notti bianche. Si era lasciato andare, in un gruppo di amici o di conoscenti, ad esporre le idee a cui più credeva, ma probabilmente gli parve di avere troppo parlato di arte, specialmente in rapporto a se stesso. Allora cercò di volgere la questione in ridere.
« E se il pubblico ci fischiasse, noi che stiamo qui a parlare di arte? Perché il pubblico, tanto bistratto, a volte ha ragione. E poi basta un niente, è sufficiente che, per qualche circostanza, lo spettatore non entri in una certa atmosfera magica che il film vuol suggerirebbe si metta ad analizzare i particolari, scorgendo i piccoli sbagli, perché invece di esser commosso, rimanga estraneo ».
Non era solo un argomento di conversazione, come si vide più tardi: c’era anche della paura autentica. Tutta la vitalità esteriore di Mastroianni venne meno al momento di entrare nella sala dove si doveva proiettare Notti bianche. Invece di attendere che cessasse il documentario, per fare l’entrata applaudita che gli organizzatori attendevano da lui, preferì sgattaiolare al suo posto nel buio. Seduto, accendeva una sigaretta dopo l’altra, aveva perduto ogni voglia di conversare. Allorché le prime immagini del film che lo aveva affermato come il migliore attore cinematografico italiano illuminarono lo schermo, si assorbì nella pellicola (eppure l’aveva già vista altre volte) più di uno spettatore qualsiasi.
Ma non guardava con compiacenza il suo volto sullo schermo — era evidente — piuttosto con la visibile ansia di scoprire dei difetti nella sua recitazione nel film.
Il teatro fa dimenticare a un attore la finzione scenica, lo fa accalorare; e poi egli ha la fortuna di non potersi vedere mai, di non essere nello stesso tempo interprete e spettatore. Ma un attore di cinema quando osserva un proprio film prova un ansia speciale nel vedere il proprio volto magnificato e ingrandito dai primi piani, fissato in atteggiamenti incancellabili e divenuti di patrimonio comune. Non ci sembra di errare pensando, per molti piccoli indizi, che Mastroianni seguisse quella sera con angosciosa autocritica la propria interpretazione: lo spettacolo, per lui, non era un divertimento, bensì un misto di penitenza e autoanalisi. Solo gli applausi alla fine lo rassicurarono. E forse non del tutto.
Novembre 1957