Roma, novembre 1946

Lo spettacolo che Luchino Visconti ha dato in questi giorni all’Eliseo è il primo avvenimento importante della nuova stagione teatrale. Come il Matrimonio di Figaro, le cui polemiche, iniziate nelle notturne dispute dell’Arlecchino, si protrassero a lungo su giornali e riviste scomodando firme più o meno illustri, anche questo Delitto e castigo, se non c’inganniamo, appare destinato a servire per qualche tempo gli sfoghi letterari e salottieri della critica e del pubblico: prova in definitiva d’un interesse che se ancora non abbandona le lusinghe del gusto e della moda, pure serve, magari indirettamente, a porre il nostro teatro su un piano di vita meno anacronistico, più ufficiale.

La riduzione di Baty, com’è ovvio in simili casi, non ha in comune con il romanzo di Dostoievskj che la storia: che è, come tutti sanno, quella d’uno studente che uccide una vecchia usuraia, e poi, vinto dai rimorsi e dallo spettacolo di dolore e miseria umana che ha intorno, finisce per confessare il suo delitto. Evidentemente tra tutto questo e il romanzo c’è una discreta differenza, quella stessa che fa grande l’opera di Dostoievskj e banale quella di Baty. Il quale per ridurre nei normali tre atti così vasta materia, s’è valso del solito accorgimento della divisione dei quadri. Ora non è chi non veda, non diciamo la difficoltà, ma impossibilità di ridurre un romanzo, un romanzo di Dostoievskj, in cui l’analisi psicologica ha tanta importanza, ad una serie di fatti; che è poi l’impossibilità alla quale altra volta s’è accennato di fare di personaggi letterari personaggi teatrali. Raskolnikoff, Giuliano Sorel, Don Chisciotte, Renzo Tramaglino, nascono da un rapporto tra lo scrittore e l’opera che non è lo stesso poniamo che da vita a Hedda Gabler, a Falstaff, a Ljubov Andrèièvna: per ragioni e motivi che non vorremmo qui riproporre, ma che dovrebbero ormai esser chiari a tutti.

E prima di tutti a Visconti, se, come è apparso dalla realizzazione, il testo di Baty ha fatto in più d’un punto sentire la sua mancanza e se le risorse della scena e dello spettacolo più d’una volta hanno rivelato la propria precarietà.

Detto questo rimarrebbe da chiedersi l’utilità, la necessità di un simile tentativo, e cioè porre a questo regista la domanda fondamentale del suo lavoro: se la sua fatica e la sua indiscussa e indiscutibile genialità debbano ancora legarsi a motivi d’ordine esteriore, ad esigenze spettacolari nel senso più esatto della parola, di pura formalità, di gioco, di bravura, o non piuttosto abbandonare risolutamente le sottigliezze tecniche, perdere la propria eleganza, non proporre più interrogativi e domande, non rispondere chiaramente, dire, concludere.

Giacché non v’è dubbio che l’esigenza di Visconti è una esigenza rivoluzionaria: diciamo questa parola e ne assumiamo tutta la responsabilità poiché siamo certi della sua buona fede e della sua sincerità. Ma purtroppo tutte le premesse antiborghesi delle sue regie vanno in ultima analisi a carte quarantotto se la loro espressione è sempre quella d’un compiacimento intellettualistico, d’una eleganza raffinata ed estetizzante, d’un formalismo che distrugge ogni contenuto e che le note finali d’una qualsiasi Carmagnola non valgono certamente a recuperare.

Questi i termini della questione che va posta in tutta la sua crudezza perché dalla sua soluzione dipenderà se il teatro di Visconti sarà di qui a qualche anno teatro popolare, oppure no; se la sua importanza entrerà nella storia del teatro italiano o rimarrà in quella provvisoria e à coté della moda.

Realismo: questa è la parola che a proposito e a sproposito s’è usata nei confronti delle regia di Visconti. Realismo la Via del tabacco, realismo la Quinta Colonna, realismo Delitto e castigo? Chiediamocelo francamente e rispondiamoci altrettanto francamente: realismo è l’assunzione del rapporto tra l’uomo e la realtà, non dell’uomo solo, non della realtà sola; nel qual caso avremmo espressionismo o naturalismo: assunzioni ancora del reale ed un solo grado: o tutto l’uomo o tutta la natura, e quindi necessità di ritrovare in se stessi il rapporto, di frantumarsi, di esaltarsi: ecco il grido interrotto di Kaiser, l’estetismo di Caldwell; in definitiva, abbandono della realtà.

Torniamo pure ora a Delitto e castigo. In verità poco rimane da dire: se non far l’elogio di Paolo Stoppa e della volontà con cui questo attore cerca di sfuggire i suoi stessi limiti, dell’impegno e dell’intelligenza che vi pone: non è colpa sua se questo Raskolnikoff non aveva con l’originale dostoieschiano che una lontanissima, casuale parentela, se ne aveva quasi completamente perduta la struttura ideologica e psicologica: quei caratteri di   esistenzialismo antelitteram, di Nazismo, diciamo pure, che sono la cornice in cui oggi ci appare l’esperimento di Raskolnikoff. Tutto questo lo abbiamo già detto; ma bisogna anche dire ad onor del vero, che in Italia non c’è attore — tranne qualcuno dei giovani — che conduca come lui una lotta per un teatro che non sia quello in cui abbiamo marcito per tanti anni; e questo merita di essere riconosciuto.

Degli altri rimangono da notare Benassi (Porfirio), la cui recitazione, sebbene tutta su un tono esasperato, ossessivo, conosce momenti di forza e persuasione che rivelano, comunque, l’attore, e Rina Morelli (Sonia), nitida come sempre, con un senso della misura e dell’atmosfera che sorprende, anche in una parte così sacrificata. Lodevolmente a posto De Lullo, Crast, Mastrantoni, Foà, Millo, la Albani, la Lolli e gli altri; meno bene in due parti che pure abbisognavano d’un certo rilievo ed equilibrio, Daniela Palmer (Caterina Ivanova) e Girotti (Razumikjn); la prima su un registro di recitazione troppo forzato per permettere il gioco di tonalità che il personaggio, comunque visto, richiedeva, l’altro insolitamente generico e superficiale. Ma del resto la recitazione in generale non conseguiva un tono comune, uno stile: forse perché le preoccupazioni della regia, suggestionate dalla scena davvero bellissima di Mario Chiari, erano andate più ai valori coreografici dello spettacolo che a quelli di recitazione: certe intrusioni, come quelle degli acrobati, e certe discontinuità di tono come il muoversi a balletto delle prostitute e la loro composizione intorno a Sonia e Raskolnikoff nel nodo drammatico della confessione, ci riportano al discorso già fatto. Esse sono una prova di come il gusto e il divertimento dello spettacolo vadano a tutto danno dei valori drammatici; a meno che non siano tali da diventare contenuto, dramma, essi stessi; ma non era questo il caso.

Luciano Lucignani
(Sipario)