Lucca, novembre 1975

Aristocratico, ricco, superbo: ecco gli aggettivi che hanno accompagnato Luchino Visconti per tutta la vita. Alto, asciutto, scattante, col suo viso dall’espressione grifagna sembrava lanciare sempre uno sberleffo al mondo. Estroso e anticonformista nella vita privata come in quella artistica, il famoso regista nato a Milano ai primi del secolo, da quarant’anni si interessa a tutte le forme di spettacolo: teatro, balletto, opere liriche, cinema. Da tre anni però la sua vita è cambiata di colpo: dell’indomabile, frenetico Luchino rimane oggi un uomo semi-paralizzato, che ha bisogno in ogni momento del cameriere personale, del ragazzo che spinge la carrozzella, dell’infermiere, del fisio-terapista per i massaggi e la ginnastica quotidiana. In queste condizioni ha girato il film Gruppo di famiglia in un interno. Allora si gridò al miracolo: sembrava dovesse essere il canto del cigno. Invece, rieccolo ad affrontare un’altra regia, un lavoro faticosissimo anche per una persona in perfette condizioni fisiche: L’innocente di Gabriele D’Annunzio, ambientato in due splendide ville nei dintorni di Lucca.

Dimagrito, la parte sinistra del corpo inerte, vestito con blusotti di maglia al posto degli abiti impeccabili, Luchino Visconti sembra l’ombra di se stesso. Quando deve passare in carrozzella in mezzo alla gente diventa bianco, tiene la testa bassa, non guarda nessuno; come se temesse di vedere negli sguardi compassione e pietà. Ma appena viene sistemato sulla grande poltrona, sotto la macchina da presa, le sue gote riprendono colore, alza gli occhi neri, imperiosi, e guarda tutti dritto in faccia. Di colpo torna ad essere un gigante.

Ma lo è veramente? È possibile che la malattia non lo abbia cambiato? Che cosa pensa, come sente oggi la vita un uomo della sua cultura, della sua sensibilità artistica? Un uomo come lui curioso di tutto, amante del bello, abituato a correre da un punto all’altro del mondo ed ora incatenato ad una carrozzella da invalido?

I maligni dicono che può permettersi di girare ancora dei film solo perché circondato da una équipe formidabile. Allora, è lui che dirige o è la sua corte che lavora a suo nome? Insomma, è rimasto il lucido, acuto, sferzante Luchino Visconti di una volta oppure la malattia lo ha vinto?

Per cinque giorni sono stata sul set dell’Innocente. E un primo dubbio è stato subito chiarito. Nulla si muove senza un suo cenno d’assenso: Visconti vede e segue tutto. Raramente usa il megafono per parlare con gli attori, la sua voce suona nitida, spesso imperiosa. È gentile, ma non ammette repliche alle sue osservazioni: le sue parole sono ordini. Per tutti.

Quando mi riceve nell’appartamento dell’albergo di Massa Pisana in cui alloggia lo trovo seduto in poltrona. La luce di una lampada da tavolo attenua i lineamenti: solo gli occhi brillano, vivi. Parla con voce asciutta, dura. Si batte la mano destra, quella che può muovere, sulle gambe inerti come a scusarsi del fatto di non avermi potuto ricevere in piedi. Poi, con un tono di sfida nella voce e sollevando il viso mi dice: « Eccomi qui a girare un altro film. Anche se non mi reggo in piedi e ho bisogno di una carrozzella per muovermi. Ma a costo di farmi portare in barella sul set, non rinuncerò mai a lavorare ».

Perché ha scelto di portare nel cinema un romanzo di D’Annunzio?, chiedo.

« E perché no? D’Annunzio è un vivaio di idee, situazioni e sentimenti. Da noi c’è un enorme prevenzione nei suoi confronti: si parla solo del fatto che è stato fascista. Invece è un fior di scrittore. »

D’Annunzio è tacciato di decadentismo: non teme che venga fatta anche a lei questa accusa?

« Anche Thomas Mann era un decadente. A me, personalmente, l’hanno detto mille volte. È un’accusa che proprio non mi secca. Decadente è un aggettivo letterario. Rivolta a me, considero questa definizione elogiativa. Non vuol dire che io cada in pezzi. Oddio, adesso casco, sì, perché una gamba non mi sorregge più. Però decadente non è una definizione offensiva. »

Perché ha scelto come protagonista Giancarlo Giannini?

« Perché è un attore straordinario. Finora è stato adoperato in macchiette che non sono degne di lui. Deve fare dei personaggi drammatici. »

E l’Antonelli? L’ha voluta perché è l’attuale simbolo del sesso italiano e attira il pubblico? O sa anche recitare?

« Ma no, io l’ho scelta perché è perfetta per la parte. Truccata da Giuliana, è il personaggio in carne e ossa di D’Annunzio. Se sa recitare non lo so. Mi è capitato di ingaggiare attori che non avevano fatto niente e con me hanno lavorato benissimo. »

Già, sotto la sua guida è possibile tutto.

« La mia guida conta, certamente. Ma non sottovaluti questa ragazza: ha tanta voglia di fare. E poi ha un viso straordinario, regge senza i trucchi da diva. Certo che con lei non mi metto a discutere di letteratura, parlo solo del film, di quello che deve fare. E lei lo fa bene. »

Tra gli attori che ha lanciato, di chi è più soddisfatto?

« Direi tutti. Guardi Helmut Berger: non era proprio nessuno. Eppure adesso ha acquistato anche lui la sua grinta. Quando li metto in luce e resistono, vuol dire che dentro hanno qualcosa. Non si spreme niente da una pera, ci vuole un limone per ottenere del succo. »

Di tutti i film che ha fatto, qual è il suo preferito?

« Rocco e i suoi fratelli: è un film che amo profondamente, che ho ancora nel cuore dopo tanti anni. Perché si svolge a Milano, perché tratta della tragedia del Sud, degli immigrati interni. »

Come uomo e come artista lei è sempre stato molto discusso: perché?

« Lo sono sempre stato e lo sarò ancora. Forse perché il mio carattere non è dei più facili, dolci, comprensibili, abbordabili. Forse l’uomo e l’artista sono sempre stati fusi assieme, o confusi. Questo perché sul set mi vedono come un leone. Ma non ho mai sbranato nessuno. Certo, prima dico le cose dolcemente, poi più forte. Ma solo per ottenere quello che voglio io. Anche un direttore d’orchestra picchia con la bacchetta: Toscanini buttava giù addirittura il leggio se un violino sbagliava una nota. »

Come uomo qual è il vizio capitale che si riconosce?

« Tanti. Ma il maggiore è la pigrizia. »

Con tutto quello che ha fatto parla di pigrizia?

« Ho fatto molto, è vero; però devo dire che ho sempre lavorato con un certo sforzo, con fatica. Non ho mai fatto le cose con facilità, proprio perché avevo addosso una grande, naturale pigrizia. Divento frenetico solo quando mi occupo di qualcosa. Ma lo sa perché? Soltanto perché m’infurio se la gente non si spiccia, non capisce subito quello che deve fare. »

Lei ha avuto una vita bella, da privilegiato. Come vede il suo futuro adesso?

« Ho avuto una vita bellissima, non lo nego. Certo, prima che mi capitasse quest’accidenti di paralisi, sognavo di avere una bella vecchiaia, di viaggiare, di conoscere tanti angoli del mondo che non ho visto. Ora non posso più pensare ai viaggi. Ma ho il mio lavoro. Non sono finito. Ho molti progetti. Dopo questo film, probabilmente ne farò subito un altro tratto da un libro di Zelda Fitzgerald, la moglie dello scrittore americano. Certo la vita adesso le vedo con occhi diversi. Sento che mi è nemica, mentre prima mi era amica. Prima ero io a dominare la mia vita, adesso è lei che domina me. Per un po’, però. Poi, sono sicuro, reagirò. Anzi, io reagisco già. E reagendo, ritornerò ad essere com’ero. Almeno lo spero. Vede che lavoro, che faccio dei film? Le persone a cui capita quello che è successo a me si fermano, non fanno più nulla. Bisogna dire che nella disgrazia io sono stato fortunato: se fossi stato un pianista sarei rimasto fregato. »

(segue)