AL FESTIVAL CINEMATOGRAFICO DI VENEZIA

Le notti bianche pur con qualche interpolazione non del tutto felice hanno conservato sullo schermo tutto il fascino sottile del racconto e hanno avuto pieno successo

Venezia 6 settembre 1957, notte

Il secondo dei due film che rappresentano l’Italia alla mostra del Lido, Le notti bianche, di Luchino Visconti, ha avuto accoglienze festosissime, forse le più calde che abbiano coronato le proiezioni di quest’anno. È un’opera di semplicità lineare, ricca di effusione, che aderisce armonicamente, se non alla struttura, allo spirito del racconto giovanile di Dostojewskji da cui ha avuto spunto e linfa. Il testo aveva delicatezza d’ispirazione e fervore di fattura, tali da non poter essere mutati arbitrariamente: era un racconto variegato come l’ala di una farfalla, pieno di sfumature tenui, di slanci improvvisi e di ritrosie pudiche. Riproporlo sullo schermo significava accettare un impegno poetico. Sulla cassa era scritto “fragile”, rovesciarla non si poteva senza rompere tutto.
Le notti bianche, chi ricordi Dostojewskji, era la storia di un incontro. (…)

Una strada nuova

La sensazione che Luchino Visconti intendesse evitare una classificazione di Notti bianche, in quanto a stile, ci era data da lui stesso, quando gli abbiamo posto una o due domande, prima della proiezione. Visconti è considerato uno dei maestri del neorealismo cinematografico e uno dei suoi assertori più intransigenti. Più di una volta avevamo avuto la sensazione, che, così incasellandolo, invece di definirlo, lo si limitasse. Specialmente in Senso, l’ultimo suo film, elementi di realtà e di romanticismo si accavalcavano e lasciavano presagire un suo più risoluto distacco dalla corrente tipica del film italiano postbellico. Già la scelta del testo letterario, stavolta, era indicativa. Sicché, quando gli abbiamo chiesto, ricordando che Le notti bianche fu definito da Dostojewskji “romanzo sentimentale” (come dice una scritta sotto il titolo) se anche il suo fosse un film sentimentale, ci ha risposto che la pellicola aderiva all’opera, era « una realtà poetica ricreata ».
Realtà poetica  ricreata vuol dire trasporto da un linguaggio all’altro, traduzione, trasposizione. È ciò che deve fare ogni buon regista rispettoso del modello che si è proposto. Visconti crede tuttora nel neorealismo, ma stavolta ha cercato una nuova strada, convinto che il cinema, come ogni arte, non possa imporsi la servitù di un solo stile. (È la cosa che abbiamo sempre sostenuto). Ma esita ad accogliere la definizione del “neo-romanticismo”, da sostituire a neorealismo, a proposito de Le notti bianche. Dice d’aver dato a Dostojewskji la forma cinematografica che la sua opera esigeva; se il racconto era sentimentale, lo è la pellicola. Senonché, sentimentale non può essere uno stile, è un attributo pertinente alla natura dell’uomo più che a quella dell’opera d’arte. E si riferisce agli affetti da cui è nato o che si ripromette di determinare, non già ai mezzi di cui si serve per determinarli.

L’amore di Natalia

Sicché, a ragion veduta, la titubanza di Visconti, quando si vorrebbe catalogare la sua pellicola, sembra giustificata.
Il racconto, scritto cento e dieci anni fa, e il film che ne è ora germinato, coincidono in questo: nella vittoria del sogno sulla realtà. Dei due termini in contrasto, Visconti ha accentuato quello che meglio corrispondeva al suo modo, la concretezza del vero. In Dostojewskji anche il consolatore di Natalia era un sognatore solitario, assettato di affetti: in Visconti diventa più corposo, fatto di buonsenso e di esigenze normali: ha il raffreddore, lava i piedi in un catino d’acqua calda, accetta la compagnia d’una nottivaga che lo distragga dalle delusioni, fa baruffa per le strade. L’altro termine, la sublime follia della ragazza, era più difficile da intensificare. Ma tutta l’atmosfera del film sta in bilico fra l’estasi e la concretezza, fra l’impossibile e il vero. E di questo urto partecipano i suoi ottimi interpreti: Marcello Mastroianni, anzitutto, il migliore di tutti, sempre spontaneo e vero; e poi Maria Schell, dolcemente svanita nel suo rapimento, alla quale rimproveriamo solo l’insistenza sull’infantilismo, monotonamente espresso dalle risatine talvolta forzate; e Jean Marais e Clara Calamai e, in una figurina ben calibrata da padrona di pensione, Marcella Rovena.
Più ancora contribuisce alla determinazione del clima e alla sua ambivalenza, mito e verità, la felicità degli sfondi. Trasportata in Italia, nel tempo nostro, l’azione s’immagina negli angiporti di una città di mare; potrebbe essere e, in certi casi è, Livorno. Ma le scenografie sono state interamente costruite negli studi; e subiscono deformazioni che danno apporto alla tragedia delle due anime, divenendo a loro volta come un personaggio dell’opera. Le viuzze, le strade, i ponticelli, i cortili, i canali sono come avviluppati da una caligine, che è la coltre dell’ebbrezza in cui vivono gli innamorati. Se Le notti bianche è un film onirico, lo è anche e specialmente per l’apporto del paesaggio irreale, che richiama alle maniere dell’espressionismo.
Un giudizio complessivo sul film implica, tuttavia, un suo frazionamento. Non a tutto si può consentire allo stesso modo. Ci sono momenti in cui si raggiungono intensità emotive indubbie; si spera ardentemente che la presa non ceda, e invece talvolta cede. Ad esempio, c’è una lunga sequenza in un ritrovo, dove, allacciati nel ballo, dalla gaiezza all’abbandono, Natalia e il giovane sembrano capirsi e comunicare. È l’episodio più teso, più fervido; ed è peccato che segua quello dell’incontro con la peripatetica e della rissa con i passanti che se ne fanno paladini: c’è un calo di tono che guasta tutto.

Sicurezza espressiva

Citiamo le due sequenze perché tutt’e due appartengono non già a Dostojewskji, ma alla eccellente sceneggiatura di Suso Cecchi D’Amico e alla regia di Visconti. Vi sono, dunque, interpolazioni riuscite e meno riuscite. Ma la grande parte del film ha densità, commozione, forza; e specialmente gli ultimissimi brani. (Nei primi, avremmo evitato di ripetere la storia della lettera affidata al giovane innamorato perché la dia allo scomparso: andava bene nel 1849, quando si usava portare a casa la corrispondenza; ma oggi esistono la posta pneumatica e il telefono.)
Una buona serata, alla mostra, per il cinema italiano. Abbiamo avuto un film discontinuo, ma di pregio, che nasce da una eleganza spirituale e da una sicurezza espressiva, di cui certo si terrà conto quando i premi saranno assegnati. Anche abbiamo avuto un’opera che efficacemente sdoppia la natura dell’uomo nei due elementi che combattono dentro di lui, ideale a verità. Creta e illusione insieme, come in noi tutti; meschinità della certezza e incantesimo della speranza.

Arturo Lanocita
(Corriere della Sera)