Con un affresco insolitamente vasto e grandioso, diretto nel modo tradizionale senza preoccuparsi dei nuovi indirizzi del cinema, buoni o cattivi che siano, Luchino Visconti si ripresenta dopo la delusione dello Straniero, e ai tenui motivi della letteratura contemporanea sostituisce gli squilli di tromba, i corruschi bagliori e i sanguigni sviluppi del teatro classico. La caduta degli dei, che ha per sottotitolo Götterdämmerung (quest’ultimo, anzi, avrebbe dovuto essere il vero titolo), nelle sue tre ore di durata ricalca, su un piano moderno, Il crepuscolo degli dei, ultima parte della tetralogia wagneriana, ma agli schemi di questa si uniscono i foschi fermenti shakespeariani e della tragedia greca.
Nel simbolico Walhalla condannato alla distruzione sono racchiusi gli dei della epoca, i grandi baroni dell’acciaio e dei cannoni, travolti dagli odi e dalle discordie intestine nella lotta per il potere, sgominati dai nuovi dei nazisti, destinati a loro volta a perire nel rogo immane della Germania vinta e distrutta. Il film abbraccia un periodo storico relativamente breve, quello che va dall’ascesa di Hitler e dall’incendio del Reichstag (febbraio 1933) alla “notte dei lunghi coltelli”, in cui furono massacrate le Sturmabteilung (SA) di Röhm, il 30 giugno 1934, aprendo la strada all’onnipotenza delle SS e della Wehrmacht: un’alleanza ibrida e forzata, sigillata da un nuovo patto con gli industriali tedeschi, il cui formidabile impero dovette umiliarsi ai geni del male da essi stessi suscitati mediante lusinghe, compromessi e sovvenzioni in denaro. In cambio i baroni dell’acciaio, epurati violentemente nei loro elementi meno remissivi, poterono conservare una parvenza di autorità esteriore e la possibilità di far quattrini.
(segue descrizione del soggetto del film)
Dal nido di vipere degli Essembeck, il cui disfacimento dei vincoli familiari con talune reminiscenze a Vaghe stelle dell’Orsa) vorrebbe attingere alla grandezza del mito nibelungico, esce una saga che a tratti si alimenta di potenti effetti visivi, a tratti cade nel melodramma. I vari piani di cui l’opera è composta non sempre si fondono con armonia e alla Forza del destino si mescola il Macbeth: troppe cose il regista ha voluto inserire nella già truculenta storia della Caduta degli dei, persino una sorte di “giallo”. Le componenti melodrammatiche e granguignolesche finiscono per prevalere e l’esasperazione di ogni situazione psicologica e ambientale fa rimpiangere una maggior asciuttezza, un rigore più distaccato del testo: che bisogno c’era, per esempio, nell’episodio terribile e già di per sé significativo della seduzione della bimba da parte di Martin e nel successivo suicidio della piccola, di aggiungere che la vittima fosse ebrea? Si fa presto a cadere di eccesso in eccesso, nell’ingenuità, e La caduta degli dei non sempre evita questo difetto. Murnau, Sternberg e Lang ne hanno ispirato certi passi, ma si tratta di ricordi estetizzanti e preziosi, da cui il film non trae autentica vitalità. Invece, singole sequenze sono di una forza allucinata e allucinante, e fra queste la grottesca orgia carnevalesca che precede la “notte dei lunghi coltelli” nella taverna affacciata su un lago della Baviera: qui la bravura narrativa di Visconti ha modo di imporsi nel disgustoso caos omosessuale che costituisce l’aspetto più sinistro della scena. E, ancora, la regia s’alza con uno straordinario colpo d’ala nel finale, allorché si celebra l’agghiacciante matrimonio dei due morituri, in un clima da museo delle statue di cera. Parecchi altri pregi ha il film: brani musicali wagneriani volutamente distorti, accostati a temi di Bruckner; una fotografia lucida e insieme concitata; una barocca sontuosità degli sfondi che rende la malsana atmosfera in cui si muovono i personaggi. Fra questi, non sempre bene a fuoco nella psicologia, sovrasta per la recitazione Ingrid Thulin, una Sophie di straordinario talento, decadente e disfatta anche per mezzo di un abile trucco: è lei a rendere verosimile il suo difficile personaggio, confermandosi attrice di livello mondiale. Meno conveniente l’interpretazione di un Dirk Bogarde monocorde (Friedrich) e di altri che talvolta si dimenano più che recitare.
C’è, nel complesso, un materiale senza dubbio carico di pathos, ma non sempre elaborato con una schietta ispirazione lirica: c’è il nobile tentativo di elevare a simbolo una serie di condizioni umane disperatamente inquiete, ma nelle quali la nemesi storica rimane alla superficie della coscienza. Il film, certamente, avrà accoglienze discordi per questi motivi, e troverà difensori e detrattori a continuazione di una battaglia già incominciata in Germania dove com’è noto (benché per tutt’altri motivi), Visconti ha avuto grosse difficoltà nel realizzare il film: al punto di non poter riprodurre i luoghi stessi in cui si svolsero i fatti storici (la locanda bavarese a Bad Wiessee, per esempio) per la sorda opposizione degli abitanti e delle autorità stesse. Siamo curiosi di vedere le reazioni che l’opera susciterà nelle sue proiezioni tedesche, se pur queste avverranno: l’ombra di Krupp, dei Bohlen, dei Thyssen, se non proprio quella di Röhm e di Hitler, s’allunga ancora su tutto il paese.
Angelo Solmi
(Oggi, 5 novembre 1969)