Roma, domenica 24 Novembre 1974

Dopo l’attacco dal quale venne colpito nel luglio del ’72, il regista ha portato a termine un nuovo film nel quale affronta il dramma della solitudine in cui si dibattono gli uomini della sua generazione.

Luchino Visconti sta meglio, molto meglio, sorprendentemente meglio. Ha appena finito Ritratto di famiglia in un interno, il quattordicesimo film della sua carriera e il primo « dopo la caduta », ossia dopo il collasso dal quale venne proditoriamente colpito la sera del 27 luglio del 1972 sulla terrazza di un albergo di Roma. Ma appare tutt’altro che stanco: anzi è pieno di energie, in possesso di un nuovo vigore. Sta già mettendo a punto i progetti per il prossimo futuro: la traduzione cinematografica di Il piacere di Gabriele D’Annunzio, la messinscena di Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello, un ritratto televisivo di Zelda, la turbinosa e tragica compagna di Francis Scott Fitzgerald. Il progetto di tradurre in film Alla ricerca del tempo perduto è caduto per le difficoltà frapposte da Nicole Stephane e Monique Montivier, le due francesi che detengono i diritti del capolavoro di Marcel Proust. Il regista italiano aveva chiesto Marlon Brando per il ruolo di Charlus, ma gli venne obiettato che l’attore americano era ormai in completo declino (non aveva ancora interpretato Il padrino). La sceneggiatura, stesa in collaborazione con Suso Cecchi d’Amico, è depositata, come testimonianza, presso il Museo del Cinema di Parigi. Ma resta il progetto di tradurre in film La montagna incantata di Thomas Mann, con il quale il regista si prefigge di concludere e la sua tetralogia sulla Germania e la sua carriera.

Ho incontrato Luchino Visconti nel suo appartamento di via Fleming 101-C, lo stesso in cui l’avevo incontrato nel gennaio del 1973, a poco più di sei mesi dall’attacco di cui era rimasto vittima. Aveva da poco abbandonato la sua casa sulla Salaria, perché, come lui stesso mi disse, vi si sarebbe sentito schiacciato, imponente a fastosa com’era. Ma non è da escludere che l’avesse abbandonata anche perché assalito, fulmineamente, dal senso della inanità delle cose, della vanità di tutte le cose, a cominciare dalla ricchezza, dal fasto e dall’opulenza della terra. Per quanto facesse ricorso a tutta la forza della sua volontà, a tutto il suo orgoglio e a tutto il suo coraggio, appariva depresso, frustrato, umiliato. Il gigante aveva subito uno schianto, sia pure non catastrofico, e non riusciva a nasconderlo.

Ora ho trovato un altro Luchino Visconti. Il Luchino Visconti di « prima della caduta », anche se non perfettamente lo stesso. Ha compiuto sessantotto anni il 6 novembre scorso. È seduto nella stessa poltrona a fiori rosa e verde, davanti alla stessa tela di Galileo Chini, in cui figura un uomo-arcangelo capovolto, forse punito per la sua superbia. Si è smagrito, il viso è scarno e tagliente come una lama; l’occhio, e lo sguardo, ha riacquistato luce piena, nonché il lampo repentino dell’uomo uso all’imperio; il linguaggio è franco, libero, ironico, irridente, sprezzante, talora sino allo scherno; e la postura eretta cui lo costringe la malattia non ancora definitivamente sconfitta accresce in modo quasi arrogante l’autorità che promana dalla sua presenza. Né attenuano il rigore della sua figura gli immensi mazzi di fiori di cui è adorna la stanza, Nè le apparizioni di Teodoro, il dalmata cucciolo che ha voglia di carezze e di giuochi, e meno che mai le irruzioni di Conrad, il pastore dei Pirenei che è apparso anche in Ludwig e che reca lo stesso nome di Helmut Berger in Ritratto di famiglia in un interno. Cosa incredibile, dal momento che il collasso  venne attribuito unanimemente ad eccesso di fumo, ha ripreso anche a fumare: fuma le Milde Sorte, che contengono una quantità minima di nicotina, ne fuma non più di sei o sette e soltanto nel pomeriggio, ma fuma. Se non fosse per la parziale paralisi persistente nella parte sinistra del corpo e che lo costringe ancora a degli esercizi fisioterapici , avremmo dinanzi a noi il Luchino Visconti dei momenti di imperiale splendore fisico e creativo, quale capo carismatico e maestro pressoché indiscusso d’uno dei clan intellettuali e mondani più prestigiosi d’Europa. Abbiamo comunque la sensazione che soggiaccia all’impulso di provarsi ad esorcizzare, con un atto di impero, il male che ancora lo insidia, cosa che con ogni probabilità gli riuscirebbe più agevolmente di quanto non riesca a Padre Merrin di esorcizzare il demone che s’è impossessato del corpo di Linda Blair nel film di William Friedkin.

« Ho ripreso a fumare » mi dice Luchino Visconti, « un mese fa circa, quando stavo per terminare il film. Può sembrare strano che non abbia ripreso durante le riprese, ma la parte più noiosa e snervante di un film è quella tecnica. Ma ho avuto l’assenso del dottore. Mi ha detto: “È meglio che fumi piuttosto che sia nervoso, ma non più di cinque o sei al giorno”. In verità ne fumo qualcuna in più, ma chi se ne frega? Cosa me ne importa di morire? Il povero Vittorio già se n’è andato! Meglio noi che un ragazzino come Alessandro Momo. Aveva vent’anni ed aveva diritto a vivere la sua vita. Io ho vissuto, ho vissuto abbastanza, ho vissuto pienamente, mi sono goduta la vita, non ho mai rinunciato a nulla, quindi posso anche morire. Non me ne importa nulla della morte. Ma ho ancora una volontà sufficiente per vincere la malattia. Tutto dipende dalla volontà ».

Costanzo Costantini
(fine della prima parte)

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