Dai primi gesti e dalle prime battute di Anna Magnani in Bellissima, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una protagonista che ci condurrà dove vuole, tanto la fantasia e la memoria dello spettatore si affidano a ciò che ella va rintracciando e riproducendo dalla realtà, con una felicità di osservazione e una forza di rappresentazione, con una verità e una poesia della vita che fanno d’una tale attrice un fenomeno unico. È probabile che dopo la grande scena di Roma città aperta, Anna Magnani abbia dato questa volta la maggior prova di sé, la sua creazione più unita e costante. Il fatto più notevole è che non si tratta dell’interpretazione d’un personaggio in condizioni eccezionali e romanzesche, ma di una donna della classe media, romana, in alcune giornate di vita e in un piccolo romanzo delle illusioni e delusioni quotidiane. Alla fine, abbiamo un ritratto di donna italiana, di quelle che hanno spazientito tanta letteratura e che è stato sempre ambizione di scrittori italiani e stranieri poter raffigurare.

In genere, nei film e nel teatro italiano, accade di veder fallire le scene di vita quotidiana fuori della convenzione salottiera. Tragici e comici d’una certa grandezza, e forti in scene forti, non riescono spesso a esprimere con un’arte plausibile il senso della vita intima, a trovare la strada per un discorso di tutti i giorni; a dire, dando un’immagine della realtà, le parole più comuni. La naturalezza e l’istintività che corrono le nostre strade, raramente si ritrovano sulla scena. Questa volta, Anna Magnani ce ne dà un repertorio completo. Quella mobilità, quel miscuglio di fantastico e di pratico, di capacità d’illusione e di realismo; quella sessualità ignara che pare sempre sul punto di cedere e che ha un ritegno in qualche cosa di molto profondo, quella ostinata fedeltà fondamentale, quell’esperienza d’uomini e dei loro desideri formatasi attraverso una pratica ancestrale di difese e di sapienza degli inganni; quel senso del pericolo che una bella donna nostra sa di portare in sé con la misura esatta del dramma che ella può scatenare; quei momenti di debolezza subito ripresi; e l’attaccamento al nucleo familiare; e il culto dei figli come volontà di potenza familiare, garanzia di riscatto da una condizione povera, speranza dell’avvenire: tutto questo è nella composizione che la Magnani offre con questo film che sembra fatto apposta perché ella vi azzardi uno dei lavori più rischiosi che un’attrice possa tentare.

Il racconto di Suso Cecchi, Francesco Rosi e Luchino Visconti, sul soggetto di Cesare Zavattini, è dei più semplici, quasi una favoletta morale. La giovane moglie di un buon operaio muratore, ha una bambina, e come accade sovente nel nostro mondo familiare, vuol farsi della figlia lo strumento della conquista d’una vita mi migliore, meno angusta e meno povera, per il suo orgoglio di madre e per l’avvenire della sua creatura. Per l’appunto, una casa cinematografica ha bandito un concorso cercando una bambina protagonista d’un film, e tra le altre centinaia di madri, anch’ella porta la sua bambina al regista Blasetti (Blasetti interpreta qui il suo stesso personaggio col suo piglio caratteristico). Tutto il film si svolge attorno alle illusioni e alle delusioni di questa madre, che dovrebbero rispecchiare i miraggi di guadagni e di gloria improvvisi della gente che gravita attorno al cinema, e le amare delusioni e sconfitte di questa medusa della vita moderna. Un particolare toccante è che la bambina è un piccolo essere di sei o sette anni, chiuso nella solenne tristezza dell’infanzia, che dice poche parole, che sa soltanto piangere quando non vede la mamma; vi si può leggere tutto e nulla; ma questa piccola ombra sullo schermo diventa un enorme personaggio, la creazione delle illusioni della madre, la bambola di questo giuoco tenero e crudele.

Finora non era accaduto che nella nostra letteratura di vedere così chiaramente il rapporto tra genitori e bambini, i figli come pegno di un avvenire migliore, come rivincita da una condizione sociale indistinta. Non c’è un istante di questo film di cui le parole, gli sguardi, le premure, le bruschezze, le tenere antipatie e i furibondi trasporti della madre, cessino di creare questo personaggio infantile. E senza mai il facile e falso patetico che si può mettere in un simile rapporto; anzi, con un amore che raggiunge i limiti d’una certa crudeltà.

Questa ignara crudeltà di vita, cioè questa realtà italiana di vita, cioè questa realtà italiana di cui il cinema è riuscito a imporre il senso e il gusto tra un pubblico fino a ieri riluttante, e che è una conferma d’una letteratura di ormai mezzo secolo, ha, se non un gran racconto, una grande attrice, e un regista, Luchino Visconti, d’una capacità plastica estrema. V’è una scena (uno dei tanti avventurieri del cinema ha truffato alla madre della bambina cinquantamila lire con la promessa d’un provino e tenta di ottenerne le grazie), una scena in riva al Tevere, fuori Porta S. Paolo, che è un brano affascinante. Il seduttore é Walter Chiari, eccellente, e urta qui nella schermaglia più sanguigna e sottile che possa opporre una donna coi sensi svegli e l’istinto sicuro. Per tutto il film assiste la sensazione d’un colore, di superfici che prendono rilievi e luci e che sono un continuo contributo al senso del dramma. Basterà ricordare le ballerine da varietà che fanno le loro esercitazioni in un cortile, nell’imbuto dei grandi edifici della periferia, in un giorno d’estate; o l’iniezione in una stanza da letto, la pelle della donna sul fianco, il lenzuolo, l’atmosfera e la luce della scena. E il motivo del piede nudo della protagonista, nella scena del fiume e nella scena finale col marito, un simbolo erotico che per interpretarlo non c’é bisogno degli psicanalisti. E la scena d’una bambina presentata al concorso, che danza sventolando la vesticciuola sulle gambette non formate. Il film è pieno di queste continue suggestioni, e inquietanti. Il regista guarda con occhio impassibile ed esatto, senza lasciarsi mai intenerire dal suo soggetto. E dal suo continuo richiamo, in un mondo luminoso, poiché questa è proprio Roma, ai vecchi muri, all’eloquenza delle vecchie scrostature, delle tende, degli oggetti; la luminosità tremolante di foglie dell’osteria sotto la pergola; la descrizione del piazzale di Cinecittà, la descrizione del cortile. Si possono avvertire criticamente alla fine tutti questi elementi di suggestione, ma nel corso del film sono un accompagnamento assiduo con la densità e la trasparenza d’una materia pittorica.

Non ultima e non trascurabile impressione, quella d’un paese sovrappopolato, d’un coro di persone attorno alla vicenda e a qualsiasi momento della vicenda. E non è un bel coro. Quasi tutte le donne del coro di questo film hanno qualcosa di deforme, una tara della femminilità e degli anni. S’è detto dell’impassibilità del regista: le apparenze anche più tenere sono isolate nella luce, il regista le annota in questa loro luce, forse disperata, forse soltanto indifferente.

Corrado Alvaro
(Il Mondo)