La mia prima esperienza con Senso risale all’inverno del 1952. Ero con Visconti alla Scala, in un palco di proscenio. Da là si ha un angolo insolito dello spettacolo d’opera: quando i cantanti vengono in ribalta per le loro arie, si vedono di profilo, qualche volta addirittura di spalle. E dietro di loro lo sfondo non è lo scenario sul palcoscenico ma la sala nera di spettatori. Si vede insomma il melodramma al rovescio, dal di dentro, come se, anziché appartenere al pubblico, facessimo parte anche noi del dramma in musica.
Quella sera si rappresentava Il Trovatore (1). All’inizio del quarto atto, quando la soprano viene in ribalta a offrire al pubblico il suo canto, il canto della donna sola nella notte presso la torre dove l’amato è prigioniero, la suggestione era veramente straordinaria, struggente.
A Visconti quella suggestione provocò probabilmente quello che oggi è un film e si chiama Senso. Si voltò e disse qualcosa che suonava press’a poco cosi: « Ecco. Ora so come deve essere il mio film ».
Tuttavia, per quanto quella immagine fosse già cosi completa, le mancava ancora un niente per essere perfetta. E più tardi alla interprete sublime di quella Leonora, che era la Meneghini Callas, raccomandò di venire più avanti in quel momento dell’opera, il più avanti. possibile, fino a sfiorare la ribalta.
La cantante seguì il consiglio e alla recita successiva il quadro era completo. Visconti sembrò davvero soddisfatto.
Visconti ha sempre detto che i suoi film gli sono nati da una immagine sola, compatta, un seme che ha poi germogliato dentro di lui e ha provocato poco a poco la creazione di un mondo completo. Cosi per
Ossessione che gli era sbocciata dal seme di una inimagine sola: una donna coi capelli sconvolti, il collo arrovesciato all’indietro, tagliato da un filo sottilissimo di sangue. Le gambe inerti, da bambola stroncata che strusciano su un selciato.
Questa che per lui era la prima immagine del film, l’origine di tutte le altre, è per noi spettatori, per logica inversione di termini, l’immagine ultima, quella che scaturisce da tutte le altre, quella che ci portiamo via più viva quando la parola fine compare sullo schermo.
Dunque Senso parte da una immagine di melodramma. Tuttavia i personaggi di questo film non sono e non vogliono essere “melodrammatici”. Le loro passioni non sono provvisorie od astratte, la logica più ferrea governa ogni loro gesto, ogni loro parola. Però la contessa Livia è una donna di quell’epoca in cui la gente, in minore o maggiore misura, si abbeverava ai modelli del melodramma per esprimere passioni, gioie, tormenti. I modelli a cui le donne piegavano le proprie personalità erano le Leonore, le Gilde, le Elvire, le Violette che esprimevano le loro infrenabili passioni sulle tavole dei teatri d’opera. L’ importanza determinante che il melodramma romantico ebbe sulla nostra società ottocentesca è d’altronde noto.
Mi sembra tuttavia che nessun film fino ad ora ne abbia tenuto conto in modo cosi sottile e definito. L’Italia è il paese del melodramma — lo si afferma ormai come a voler denunciare un nostro imperdonabile limite — ma nessuno si era spinto ancora nel cinema oltre la rievocazione celebrativa di questa o quella gloria musicale analizzandone i riflessi sul costume, sul mododi pensare e di comportarsi, sulla mentalità dell’individuo nel pubblico, come mi sembra abbia fatto Visconti in questo film.
Nel nostro lavoro di assistenti, quando preparavamo per Visconti la materia grezza su cui lui avrebbe poi lavorato, io mi chiedevo quale “angolo” egli avrebbe scelto e seguito per rappresentarla. Spesso, sui campi di Custoza, o per le calli di Venezia, o nelle sale della villa palladiana di Lonedo, mi tornava in mente quel canto lunare di Leonora e la sua figura velata sotto la torre dove languiva il prigioniero. E mi chiedevo se in tutte le immagini del film, anche le più lontane da quella, anche le più impensate, Visconti avrebbe mantenuto lo stesso angolo ideale che aveva stabilito su quel canto e su quella immagine.
All’atto pratico questa considerazione poteva avere una importanza decisiva, La scelta di un tipo, di un dettaglio piuttosto che un altro, da sottoporre a Visconti, dipendeva dall’aver ben chiaro in mente il suo “angolo ideale”.
Mi ricordo i criteri che avevamo seguito in La terra trema, dove tutto quello che interessava Visconti come materia di lavoro doveva essere sempre ed unicamente dimesso, quotidiano, senza risalti o raffinatezze decorative. La dominante di quel film era evidentemente e necessariamente un’altra. Mi ricordo come fu faticoso nei primi tempi entrare nel giuoco di quella dominante a riferirsi sempre a lei in ogni occasione.
Se Visconti fosse pittore (a parte il fatto che in un certo modo essenziale lo è e di grande qualità) stabilirebbe in ogni suo quadro il tono base, cioè la “dominante tonale” appunto, e a quella riferirebbe poi ogni altro colore o tono da impiegare. Chi ha lavorato con lui in teatro conosce molto bene questa regola.
In Senso il giuoco della dominante è stato ancora più complesso di sempre, dato anche l’apporto del colore e l’allargamento dei mezzi espressivi che questo comportava. Ma raramente sono stato felice di qualcosa come di essere stato quella sera alla Scala con lui mentre davano Il Trovatore, e avere avuta la cognizione fin dal principio di quello che sarebbe stato “l’angolo ideale” di Senso.
L’aria del melodramma circolava incontrastata durante le riprese del film. E capitava spesso di sentire un operaio che fischiettasse una melodia di Verdi.
Era bello stendersi sui prati intorno a Lonedo, durante una pausa, sentire il vento leggero che scendeva dalla val d’Astico. Fu proprio in una condizione come quella che mi arrivò la voce di una truccatrice che canticchiava: …“gemente aura che attorno spiri…”.
Franco Zeffirelli
- Teatro alla Scala 23 Febbraio 1953. Direttore concertatore Antonino Votto; Maria Meneghini Callas (Leonora).