La sceneggiatura fiume aveva subito l’influenza di cinque diversi apporti. Uragano d’estate è il risultato di una collaborazione a due fra Luchino Visconti e Suso Cecchi D’Amico. Questa è, almeno secondo Suso Cecchi D’Amico, l’ultima sceneggiatura ufficiale, definitiva.

Era difficile ritrovare nella prima sceneggiatura i personaggi del bell’ufficiale austriaco cercare volti e ambienti in cui consumarsi; la sconfitta di Custoza individua il suo teatro di orizzonti, paesaggi, strade. E anche a noi offre un volto più preciso.

Era difficile ritrovare nella prima sceneggiatura i personaggi e gli stati d’animo del film; anzi, essa si presentava quasi come il rovescio dei suoi umori, perché era il momento faticoso e teso della scoperta dei motivi conduttori e del loro difficile annodarsi ai fatti. Nel massimo impegno di definizione storica, filosofica, culturale, cercando un precario equilibrio ad eterogenei indirizzi, essa assomigliava soprattutto ad un tentativo di giustificazione dei personaggi attraverso le cose più grandi di loro. Era un discorso ufficiale che aveva chiamato in suo aiuto la cultura, la storia, la filosofia, il teatro, ma quanto più provveduto di argomenti, di immagini, scoperto, sincero, ragionevole, tanto meno convincente. Questa prima versione si presentava col vizio di una sospetta ambiguità. Non era mai chiaro se il racconto tirasse dalla parte dei fatti o da quella dei personaggi.

Ora, l’atto più evidente è la riduzione dei ricordi ad una sola memoria, quella di Livia, con la scomparsa di Ussoni, e quindi dell’ospedale, e quel finale a due che era anche un dispotico malizioso rovesciamento del terzo atto del « Trovatore ».

Questo mutamento ne porta con sé altri numerosi. Infatti, se la confessione a due era un rapporto di sincerità, restava tuttavia un momento di esteriorizzazione. Qui essa diviene un tragico rapporto a se stessa, in un’ora di disperata solitudine (la solitudine di un Giuda carnefice-vittima). Memoria tutta femminile, ancora febbrile e scossa per l’esecuzione di Franz. Un processo nella profondità della coscienza viene ad accompagnare quello che era soprattutto uno sviluppo di fatti, fino a sostituirlo. Il racconto ne risulta apparentemente semplificato, ma reso più difficile dall’obbligo di presentarsi negli umori di una sola prospettiva.

Si comincia con la diversa distribuzione degli episodi. Calano di numero e di peso le scene in cui non è presente il tenente; mentre si aprono, indugiano, crescono quelle in cui egli appare; qui la memoria, non più assente o risvegliata all’improvviso, ricorda espressioni, toni, cadenze, gesti. Esse si allargano come macchie d’olio, sommergendo le altre. Scompaiono quasi i litigi fra Livia e Serpieri (lo schiaffo); Hans, il nome a lungo accarezzato, diviene Franz, il mondo esterno non urta più contro i protagonisti, li accompagna come un’eco. Tutto è più carezzevole, composto, invitante. La stessa scenografia dell’incontro notturno alle Fondamenta Riello lusinga il macabro cinismo di Franz, le rime sepolcrali di Heine. Scomparse le prostitute, il mendicante, resta solo un’eco di alterchi; il distacco avviene, meno violento, nel pittoresco operaio del canale di Cannaregio, che si ridesta. Il caffé Quadri prende vita, la stanza d’affitto diviene, nel suo squallore, incantevole rifugio di sentimenti; appaiono ex-novo una libreria, il granaio di villa Aldeno, la piazzetta del paese in un clima di attesa. Molto di quello che era ragione d’urto qui diventa materia d’impasto. C’è, evidente, un lavoro di pulizia, di liberazione dalle scorie. Già si tende a semplificare, per lasciare l’essenziale: che è la solitudine di Livia.

Le modifiche divengono sostanziali per quanto riguarda i rapporti fra Livia e Franz, Ussoni, il finale della vicenda. Un doppio movimento porta Livia e Franz a campeggiare nella vicenda e a trasformare essenzialmente la natura del loro vincolo, che comincia appunto a diventare un amore « maledetto ». Ora l’impossibilità è nel profondo della struttura dei due personaggi; la divisione dei due mondi, più che nell’estraneità di partenza, è nel carattere dei due amanti, dei quali uno reca in dote il sentimento, l’altro il senso, ultimo rifugio prima di un gesto antipatico ma eroico, l’autodistruzione. Nella ragione del loro abbraccio essi portano quella della loro incomunicabilità; e in essa l’eco di una crisi più generale. Per dirla con una frase, nella prima sceneggiatura essi erano in guerra perché era in guerra il loro mondo, qui il mondo è in crisi perché essi non riescono ad incontrarsi. Quello che era un dramma di situazione, ora assume dunque una dimensione più estesa e invincibile, poiché la situazione è divenuta modo dei personaggi, se non completamente carattere.

Così, anche il fatto storico. In Boito le azioni belliche degli italiani erano solo notizie, riferite da Livia con odio esagerato; nella prima redazione di Visconti, le notizie si incarnavano in un « messo » che veniva a riferirne, il marchese Ussoni. In « Uragano d’estate » i riferimenti alla preparazione del movimento patriottico, le vicende della guerra, e anche tutto il viaggio di Ussoni, diventano « notizie interne ». È una riduzione a momento della coscienza di tutta la parte epica del film, il mondo cioè tradito da Livia e rifiutato da Franz.

Come risulta anche dal sunto allegato, in « Uragano d’estate » gli sceneggiatori eliminano quasi completamente l’intenzione precedente di documentare le ragioni strategiche della sconfitta, lasciando nell’aria tracce di disordine e di sperdimento, e accentuando invece la polemica filopartigiana di Ussoni, che poi si confonde con i fatti, e viene travolto dalla sconfitta scomparendo in un paesaggio di spettri e di macerie fumanti. Ussoni non è il protagonista « che sa »: egli viene a confondersi nel coro di una generale situazione di disastro. Ma al tempo stesso ne acquista, proprio perché nascente dalla contemplazione di chi è venuto meno agli impegni della patria, un’esaltazione epica, avvolta in una dolce retorica risorgimentale, del tutto giustificata, come una lontana visione nostalgica.

Anche qui si manifesta una tendenza tipica di Visconti. L’autore, sicuro della presenza ed unità del suo mondo, non si cura assolutamente di ciò che « muore » da una all’altra sceneggiatura, certo che esso sopravvive all’interno, anche se non dichiarato. Come in un movimento pendolare, diventa esplicito ciò che era più riservato nelle prime stesure, nuovi personaggi prendono un nuovo sviluppo. I più espliciti riferimenti manzoniani scompaiono, altri ne spuntano (il viaggio in barca di Livia) sempre, o quasi, con una intenzione profanatrice. Livia, ad Aldeno, è la « Traviata », e subito dopo finge di dormire per restar sola con Franz, richiamandosi al finale della « Boheme ». Nel film tutto questo sarà sostituito con seducenti inflessioni shakespeariane e capiremo che « Senso » è la « Giulietta e Romeo » che Visconti preparava contemporaneamente a Castellani. (1)

Le soluzioni espressive, nuove rispetto alla prima sceneggiatura, non sono poche, e forse non è inutile poterne indicare la data di nascita, poiché essa influirà anche sul loro disporsi nel film, quasi con un peso di diversa età. Il granaio di Aldeno, ad esempio, scoperto durante le ricognizioni. Molte spariranno, obbedendo ad un rigoroso processo di assestamento, e pur belle (la piazza S. Marco, il notturno al caffé Quadri, la piazzetta di Aldeno). Una importante trasformazione, inoltre, è nel gruppo finale, fra la scenata nella camera di Verona e l’ultimo incontro nella fortezza.

  1. La fonte, di struttura e di umore, più diretta delle scene nella camera d’affitto, e di tutto il blocco Aldeno, dalla malattia di Livia alla partenza di Franz, è naturalmente « Rosso e nero », di Stendhal. Secondo Mario Serandrei, che ha curato il montaggio, appunto « Le Rouge et le noir » e « Guerra e pace » di Tolstoi sono le grandi matrici di « Senso », per la parte epica e quella corrotta romantica. Ma esse, in tutta la elaborazione del film, si trovano contaminate dai ricordi e dalle eco di infinitee più rare, diverse suggestioni.