Venezia giugno 1970

« Esagero quando parlo dei giovani registi italiani?… », Luchino Visconti ha l’aria di meravigliarsi sinceramente. « Guardi che non c’è polemica da parte mia nei loro confronti; nei loro confronti, caso mai, c’è polemica da parte del pubblico. Se il pubblico diserta le sale dove questo nuovo cinema, o tentativo di nuovo cinema, si esibisce, e, invece, affolla le sale dove si proiettano film come il mio o quello di Fellini vuol dire inequivocabilmente che il pubblico è in polemica con i giovani registi italiani… Oh, non ho certo dimenticato di essere stato un giovane regista italiano anch’io. Siamo stati giovani tutti. Non è che noi siamo nati già vecchi. Siamo stati giovani tutti, tutti abbiamo fatto del cinema in un certo senso d’avanguardia. Abbiamo fatto il neorealismo. E il pubblico disertava le sale dove il neorealismo si esibiva, il pubblico era in polemica con noi. Dunque, i conti tornano, oggi è lo stesso di ieri?… No, i conti non tornano. Perché, purtroppo, non vado a vederli neppure io, i film dei nuovi registi italiani. E questo è grave. Io dovrei capirli. Basterebbe che i giovani registi italiani raccontassero davvero: cose nuove, comunicassero davvero informazioni nuove, toccassero davvero argomenti nuovi, e sarei il primo ad andare a vedere i loro film, a capirli, a sostenerli. Ma, le volte che mi azzardo ad andarli a vedere, è sempre una delusione, e la delusione aumenta, la delusione mi sconsiglia di insistere. È ammissibile che credano di cavarsela con le acrobazie di carattere formale, la presunzione di reinventare la tecnica cinematografica, e le cattive imitazioni di Godard?…».

Visconti, evidentemente, non lo ammette. L’aria di sincera meraviglia si è mutata in un’aria di pensieroso cruccio. Visconti guarda davanti a sé la veranda dell’Hôtel des Bains, ancora per un giorno tutto a disposizione della troupe. Signore e signori vestiti di bianco, un bianco tendente al giallino, si distribuiscono tra i tavoli e le poltrone e i divani laccati di bianco, un bianco tendente al giallino, il bianco di un’altra epoca recuperato nel giallino delle fotografie stagionate in un album di famiglia. Dobbiamo essere intorno al millenovecentodieci, Visconti parla ancora piano: « Pure noi abbiamo cominciato più o meno bene con un primo film. Poi, però, ne abbiamo fatto un secondo che era migliore del primo e un terzo che era migliore del secondo. Invece i giovani registi italiani di oggi pare che si siano già fermati. Dopo un primo film con dei risultati, delle qualità, dei pregi, si sono affrettati a cadere. E perché?… Il perché è persino troppo chiaro: non affrontano problemi vitali, problemi che li coinvolgano completamente, problemi della loro generazione. Noi, quando siamo stati giovani, abbiamo trattato i problemi della nostra generazione. Vorrei che i giovani registi italiani facessero lo stesso. Non trovo opportuno che dei loro problemi si occupi uno di noi. Potrei provarci, ma mi sentirei a disagio, fuori posto, senza giustificazione. Ognuno ha i suoi problemi… Del resto, io non torno al passato per evadere dalla realtà o per paura di compromettermi. Per me il passato non è un rifugio. Sa da quanto mi portavo dentro il desiderio di girare questo film, un film da quel bellissimo racconto di Thomas Mann che è Morte a Venezia?… ».

Sulla veranda dell’Hôtel des Bains vengono dati gli ultimi ritocchi. Comparse e suppellettili sono spostate e rispostate in modo da armonizzare meglio con le tende, con i fiori, con il verde dello sfondo. Un cameriere in frac nero oscilla sulla soglia di quella porta con un vassoio in bilico tra le dita premurose. « Nel mio film intendo essere il più fedele possibile al testo di Thomas Mann… », dice Visconti. « L’illustre scrittore tedesco Gustav von Aschenbach cerca per tutta la vita di realizzare nella propria opera una misura assoluta di bellezza: alla vigilia della vecchiaia si accorge improvvisamente di quanto la sua ricerca fosse vana, giacché certe mete si raggiungono solo attraverso l’Eros… Il protagonista del racconto, a cinquant’anni, ricco di gloria e di onori, sicuro della propria maestria, avverte con turbamento il declino biologico, l’interno decadimento, la mancanza di gioia nel lavoro. Preso da un impaziente desiderio di fuga e di cambiamento, lascia la sua casa di Monaco di Baviera e parte per una vacanza al Lido di Venezia. Dell’Hôtel des Bains è pure ospite un quattordicenne polacco: Tadzio… Ad Aschenbach basta vederlo una volta per rimanere incantato dalla meravigliosa bellezza del ragazzo, una bellezza naturale, un dono infinitamente più facile e più felice della perfezione estetica che lui conquista, non sempre e sempre con crudele sforzo, nella creazione artistica. L’attrazione verso Tadzio diventa presto irresistibile… Aschenbach tenta di sfuggirle partendo, ma torna indietro, le sue giornate trascorrono nell’attesa, nella contemplazione, nell’adorazione del ragazzo. Tra loro non viene scambiata una parola. Ma Tadzio si trasforma nel simbolo di tutto quello a cui l’artista aspira… ».

Evocato, sulla veranda dell’Hôtel des Bains appare Tadzio. Nella vita si chiama Björn Andrésen ed è svedese, non polacco. Sarebbe meglio rettificare che nella vita si chiamava Björn Andrésen ed era svedese, non polacco. Ormai anche nella vita si chiama Tadzio, e, quanto alla nazionalità, probabilmente neppure lui sa più se sia svedese o polacco. Nel bianco vestito alla marinara tendente al giallino è splendido, languido e radioso. « Prima di qualsiasi altro, quando sono stato finalmente certo di poter girare Morte a Venezia, ho cercato Tadzio… », dice Visconti. « Ho voluto trovare a tutti i costi il ragazzo che rispondesse alle descrizioni di Thomas Mann. Una creatura reale, e insieme una proiezione dell’intelletto. Perché quella di Gustav von Aschenbach è un’avventura intellettuale in bilico tra verità e immaginazione… Impossibile scegliere un latino: sarebbe stato troppo sensuale, corposo, materiale. Così ho cercato Tadzio nei paesi di razza bionda. È stata una lunga ricerca. Sono stato, ovviamente, anche in Polonia. Ma in Polonia ho constatato che i giovani hanno perduto un poco di quella eleganza che dovevano possedere un tempo. Oggi, evidentemente, le leve dei giovani provengono da categorie sociali molto diverse. La Polonia è molto cambiata… Ho rinunciato a un Tadzio polacco per un Tadzio svedese. Il mio Tadzio l’ho incontrato a Stoccolma: è stato il sesto o il settimo ragazzo che si è presentato nella saletta che avevamo affittato in albergo. Ho avuto subito l’impressione che fosse quello giusto, anche se mi sembrava molto alto per la sua età. Proprio quello giusto. Insomma, mi sono sentito come Aschenbach, ho avuto pure io una folgorazione. Sono sicuro che nel mio film apparirà il Tadzio di Thomas Mann. Un’assoluta fedeltà… ».

Arrivano anche gli altri interpreti. La madre di Tadzio, ovvero Silvana Mangano, con il bianco volto sbiancante dietro il biancore della veletta, sotto il monumentale cappello a fiori. Le sorelle di Tadzio, amministrate dall’eterna governante del cinema italiano, ovvero Nora Ricci rabbrividente nel vestito leggero per un tenace raffreddore. E ormai è la volta di Gustav von Aschenbach, ovvero di Dirk Bogarde, con i capelli lunghi sul collo, i baffi e un naso non so quanto suo, « Un’apparente libertà me la sono concessa per lui, ma solo per essere ancora più fedele al testo di Mann… », dice Visconti. « Infatti, nel racconto Aschenbach è uno scrittore, ed è difficile rendere i problemi, rendere l’opera, rendere la psicologia di uno scrittore sullo schermo, qualcosa di impalpabile: Dunque, ne ho fatto un musicista, e ho scelto un vero e proprio modello a cui ispirarmi: Gustav Mahler… Del resto, è il personaggio della realtà che sta dietro al personaggio della fantasia pure nel racconto. Mi sono documentato in proposito. So, ad esempio, che Thomas Mann assistette nel millenovecentodieci a Monaco alla prima esecuzione dell’Ottava Sinfonia di Gustav Mahler e rimase colpito dalla personalità del compositore, Scrisse di lui: è l’uomo che dà all’arte del nostro tempo la forma più profonda e sacra. Ed Erika Mann conferma che il personaggio di Aschenbach non porta unicamente il nome di battesimo di Mahler, ne ha tutti i tratti psicologici e fisici. Vede che non è un arbitrio, tanto meno un tradimento?… E poi, in questo modo, appagherò un mio profondo desiderio. Quello di girare un film con la colonna sonora interamente di Gustav Mahler. Avrei già voluto appagarlo girando La caduta degli dei… ».

Tadzio è già seduto in quella poltrona. Pure la madre di Tadzio, le sorelle, la governante sono sedute intorno a quel tavolo. Gustav von Aschenbach aspetta, nervoso come personaggio, paziente come attore, gli ultimi suggerimenti del regista. Visconti si alza. «Se si ferma qui, vedrà l’unico contatto tra Aschenbach e Tadzio. Un contatto solo immaginario. È quando Aschenbach alla Cook ha la conferma alle voci, ai timori, ai sospetti appena percepiti nel possesso della passione. Le voci, i timori, i sospetti che un morbo stia conquistando Venezia… Ricorda che allora Aschenbach immagina di avvicinare la madre di Tadzio per avvisarla del pericolo, per scongiurarla di mettere in salvo il figlio? È questa la scena che vedrà se si ferma qui. Aschenbach che trova la forza di parlare, e la madre che lo ascolta, chiama a sé il figlio, quasi offre Tadzio alla carezza dell’artista. Tutto solo immaginato. Aschenbach non parlerà mai alla madre del ragazzo, non accarezzerà mai Tadzio… Rimarrà ad ammirarlo silenziosamente, si abbandonerà al pericolo di una Venezia sempre più in disfacimento. E morirà di colera il giorno della partenza dell’amato. Lo diceva anche Mann a un amico: si tratta di un racconto grave, di tono puro, un caso di passione ispirata da un ragazzo a un artista ormai quasi vecchio. Commenterai hum, hum, diceva Mann, invece è qualcosa di molto decente. Quelque chose de tout-à-fait convenable… convenable… convenable… ».

Visconti mi gira le spalle per rientrare in Morte a Venezia. L’ultima informazione che mi elargisce è un sospiro soddisfatto per la veranda dell’Hôtel des Bains, regredita di oltre mezzo secolo: « Non le sembra una fotografia dell’epoca? Una di quelle fotografie di Marie Tarnowska appunto in quest’albergo?… ». Ed è forse la maggiore informazione di tutto il colloquio. L’album di famiglia che Visconti sfoglia di film in film è, indubbiamente, un album di famiglia diabolica, se sotto quest’idillio appena ricostruito con delicatezza, puntiglio e sentimento è pronto a vedere la minaccia e il fascino della terribile contessa. Del resto, Marie Tarnowska è da troppo tempo un personaggio familiare nei progetti di film di Visconti perché si rassegni a non cercare di introdursi in qualche modo in un film che viene girato proprio a Venezia dove fu sensazionalmente processata e condannata nel millenovecentodieci. Mi piacerebbe avere un supplemento d’informazioni a proposito della citazione di Marie Tarnowska. Ma capisco che non mi è concesso esagerare. Visconti ora sta parlando piano con Dirk Bogarde, pateticamente, disperatamente, ossessivamente Gustav von Aschenbach. Si bisbigliano con estrema educazione segreti sulla scena da girare. Visconti mette a posto una ciocca di capelli sull’orecchio di Bogarde, la spiana, la riarriccia, torna a spianarla, esigente e incoraggiante.

Bogarde dovrà percorrere un breve sentiero tra tavoli, poltrone e divani, arrivare sino al tavolo intorno al quale la Mangano eroicamente irrigidisce il collo sotto il monumentale cappello e la Ricci non meno eroicamente soffoca la tosse. Bogarde si martorierà le mani dietro la giacca, poi finalmente si deciderà, si inchinerà, si aprirà alla Mangano. Visconti, tra il direttore della fotografia Pasquale de Santis e l’operatore di macchina Nino Cristiani, controlla l’inquadratura. Poi si risiede. L’aiuto alla regia Albino Cocco scandisce nel megafono: « Bloccare… ». Fuori, nel viale che porta all’Hôtel des Bains, viene bloccato qualsiasi traffico perché nessun rumore di questa epoca turbi la scena remota. « Motore… », Visconti parla ancora piano, quasi continuasse a bisbigliare ulteriori segreti a Bogarde. È alla conferma: « Partito… » che alza la voce. Non ha bisogno di megafono per farsi sentire. « Azione… ». È un ruggito. Nervoso come personaggio, paziente come attore, Dirk Bogarde s’inoltra nel breve sentiero, un sentiero che, nonostante la palese brevità, può durare in eterno, Visconti, infatti, non si accontenterà facilmente. La scena sarà ripetuta e ripetuta. Insomma, Aschenbach dovrà sudarsela, la carezza a Tadzio. E si tratta appena di una carezza immaginaria, una carezza azzardata solo nella mente di un povero artista ormai vecchio attratto e condannato dalla bellezza giovanile.

Oreste del Buono