L’ultimo film di Luchino Visconti, che conferma, se ve ne fosse stato bisogno, le grandi qualità di questo regista, può dar luogo ad alcune osservazioni sul carattere del neorealismo, carattere al quale ho accennato in precedenti scritti e in alcune note su questa rivista. La novità del neorealismo non consiste nel dare allo spettacolo cinematografico il massimo di realismo, ma in quell’illuminazione, come ebbe a scrivere Zavattini nella prefazione a Cinema italiano, oggi, che lo fa tendere a liberarsi il più possibile, direi anzi totalmente, dalle convenzioni di esso spettacolo. Nel dopoguerra aveva inizio in Italia quella rivoluzione stilistica che, sola, in arte è l’indice di un mutato clima spirituale, di un contenuto veramente nuovo. Si è creduto da taluni che il carattere distintivo del neorealismo risiedesse nella tematica sociale se non addirittura in un’impostazione programmaticamente politica della lotta di classe: criterio che ritengo sbagliato o per lo meno insufficiente a cogliere la novità del cinema italiano, proprio perché la tematica sociale e politica non sono nuove nella storia del film. L’errore di valutazione è dipeso dallo scambiare il contenuto “apparente”, sempre separabile dalla forma, con quello reale che nella forma stessa si immedesima. Altri è incorso nello sbaglio opposto, identificando il neorealismo in quella particolare tecnica che consiste nel girare tutto dal vero e con attori veri: e anche questa non è una novità per il cinema, che conta esempi illustri in tal senso e d’altra parte un tale errore sorge dall’equivoco di scambiare la tecnica con la forma artistica. Riso amaro di De Santis e Cielo sulla palude di Genina, con i loro innegabili meriti di spettacolo cinematografico (sottolineo apposta le due ultime parole) rispondono a queste due estreme ed errate posizioni e restano per tanto, come sarà chiaro allo storico di domani, al di fuori della corrente neorealista.
La più errata ed arbitraria di tutte è la interpretazione cristiana data ai nostri film più validi del dopoguerra: non perché si voglia negare a codesti film un sentimento cristiano (e chi potrebbe pensare una simile assurdità quando la nostra civiltà è e resterà cristiana indipendentemente dalla sua struttura sociale?), ma se mai per la semplice ragione, opposta, che un tale sentimento non può essere carattere distintivo d’una particolare tendenza cinematografica. Una simile posizione non è valida anche se la si restringe, come taluno ha creduto, alla « ricerca di Dio », al bisogno di una Fede trascendente. Da Roma, città aperta a Stromboli Rossellini non ha fatto certo dei passi innanzi sulla via del neorealismo. Ed è naturale che sia cosi perché si tratta di un problema individuale, di coscienza, che non è nuovo all’arte e alla vita morale dei popoli, un problema, comunque, che non è specifico del cinema. In fondo il segreto del neorealismo, la straordinaria illuminazione, consistono in un’idea semplice, quasi ovvia: guardare la realtà. Dimenticare noi stessi, i nostri particolari problemi, le nostre ambizioni di artisti, la nostra bravura, e guardarci intorno per vedere e capire quello che succede, lasciandoci prendere dal sentimento che questa realtà ci suggerisce. Guardare per far vedere agli altri quello che abbiamo visto, cosi come lo abbiamo visto, senza aggiungere nulla di nostro oltre quel sentimento (e non è poco: è l’anima della poesia) che la realtà ci ha fatto vibrare in petto.
Paisà, Sciuscià, Ladri di biciclette, La terra trema sono su questa linea anche s ognuno di essi, per modi diversi, porta dentro di sé e ne è in certo qual modo appesantito, residui letterari spettacolari, pittorici. Guardare alla realtà significa osservarla, comprenderla; amarla, ma vuol dire anche volontà di modificarla, di migliorarla col modo proprio dell’arte che, rappresentandola, ce la pone di fronte, impegno inderogabile della nostra umanità. Di qui la profonda esigenza di verità del neorealismo; il suo rifiuto di ogni finzione spettacolare, sta nella. storia e nella sua struttura narrativa che nella realizzazione, lontana da ogni forma interpretativa e ogni convenzione tecnicistica. Di qui la mancanza del tradizionale lieto fine, che al termine dello spettacolo manda a casa soddisfatto e pacificato lo spettatore. Di qui il senso nuovo che vengono ad acquistare l’inquadratura e il montaggio, tanto che a taluno è sembrato, erroneamente, che venissero a dissolversi nel loro valore di specifico linguaggio cinematografico, mentre, ritrovando la realtà, il film ritrova se stesso nella sua autonomia dallo spettacolo.
Tra Ossessione e La terra trema sta Bellissima: partecipando dello spettacolo e del film, nel senso migliore in ambo i casi, pone categoricamente il problema, coglie ed esprime veramente il punto essenziale della crisi del neorealismo, È una crisi stilistica, derivante dal compromesso fra due modi (lo spettacolo e il film), ma anche fra due mondi: due mondi che l’ultima guerra ha separato e che pure convivono e si intersecano; l’uno legato all’oggettività di vecchie forme, l’altro libero, nuovo come una scoperta. Questa contraddizione di Bellissima tocca in un senso e nell’altro punte assai alte, come la scena sul getto del fiume e la prima presentazione del”ambiente di Cinecittà, o quella della periferia dove abita la protagonista: si avverte ogni qualvolta la maestria del regista e la bravura dell’attrice, strappandoci grida di ammirazione, superando quella realtà commovente e dimessa si cui il film vuol essere la storia. Non è possibile in una breve nota sviluppare organicamente un tale punto di vista: a me basta aver suggerito certe osservazioni che possono dare l’avvio a chiarimenti e sottili discussioni, sottolineando nello stesso tempo l’importanza di un film che porta comunque nel nostro cinema di oggi un vitale fermento e pone un problema di stile e un’esigenza a mio avviso irraggiungibile: la riduzione del neorealismo a spettacolo. E s’intenda il senso di quest’ultima parola.
Luigi Chiarini
(da Cinema – Nuova Serie Fascicolo 78, 15 gennaio 1952)