L’ultimo film di Visconti, «Senso », mutilato di alcune scene e inquadrature che per ragioni politiche (l’incontro,nei pressi di Custoza, fra il marchese Ussoni, capo delle formazioni volontarie, e il rappresentante dello stato maggiore, il quale tende a esprimersi in termini e con propositi non dissimili da quelli degli alleati nei confronti dei partigiani italiani della seconda guerra mondiale) e per ragioni, pare, « morali» (qualche abbraccio e bacio in più, si dice) la censura ha voluto far togliere, è stato proiettato ieri, in contemporanea, in tutta Italia. Sul problema della censura, comunque, altri interverranno in sede strettamente critica, le questioni che urgono sono di diversa natura, e dànno l’avvio a un discorso, che speriamo sempre più serrato e approfondito, sul film storico nel quadro del neorealismo cinematografico.
Per Visconti, se un raffronto dobbiamo fare, non si può certo parlare di epopea popolare alla Blasetti («1860»): la sua Italia, vista nel Veneto del 1866 alla vigilia e durante la guerra italo-austriaca culminata nelle gravi sconfitte di Custoza e di Lissa, non è un dato compiutamente storico, né una cordiale leggenda oleografica. Quel momento di trapasso dall’ Italia risorgimentale, in cui le generose illusioni patriottiche e i fermenti della società nazionale convivevano, spesso confusi, coi chiusi interessi e con i rigidi interessi classisti delle caste conservatrici «piemontesi», all’Italia in cui queste caste si avviavano a imporre, dopo l’unificazione-annessione, i loro gruppi politici dirigenti a tutto il Paese, il loro predominio, il loro immobilismo (appena intaccato, alcuni decenni dopo, in mezzo a gravissime contraddizioni, dal riformismo giolittiano), le loro repressioni, è stato colto da Visconti in una cupa vicenda passionale, in un torbido complesso di sentimenti il cui segno — il cui simbolo, vorremmo dire — è una decadenza ormai irrevocabile, una inarrestabile putrefazione. La contessa Livia Serpieri, moglie di un nobile affarista e austriacante, è travolta da un disperato amore di quarantenne per un giovane ufficiale austriaco, vile e dissoluto, si offre a un drammatico confronto — da simile a simile, corrotta a corrotto, da perduta a perduto — che esprime in se stesso un giudizio umano e storico.
Franz Mahler, il giovane ufficiale delatore, baro, disertore, vigliacco, lo proclama con una amarezza che sembra dare al personaggio una carica morale più forte di lui, e a lui esterna: che m’importa — egli dice all’incirca — di una vittoria? So che l’Austria perderà il Veneto e la guerra. So che il nostro mondo è finito. E di quel nuovo mondo di cui parla Ussoni (il capo dei patrioti) è meglio non impicciarci. Franz e Livia sono le vittime di un mondo che crolla; la furiosa ricerca di piaceri dell’uno, e la passione che spinge l’altra al sacrificio dell’onore, della dignità, di ogni più elementare patriottismo, della lealtà, sono l’ultima illusione di perpetuare quel mondo.
Tra le parti soppresse per esigenze, diciamo così, di metraggio (si sa che un film, per i produttori, deve avere una lunghezza stabilita in termini abbastanza rigidi), ci e è stato riferito che ne esiste una in cui si precisa il personaggio di Laura, la cameriera (Rina Morelli). La scena, se conservata, avrebbe servito a meglio definire il giudizio che Visconti ha inteso dare, nel film, di quell’antico mondo di vanità privilegiata, di vizioso distacco dai grandi problemi nazionali che si agitavano allora e che ancor oggi si agitano. la cameriera, dunque, saputo che la contessa Livia vuole abbandonare la villa e raggiungere l’amante a Verona perché la zona sarà tagliata fuori dai reparti garibaldini e dai contadini insorti contro gli austriaci, grida alla padrona di non lasciarla tra quei «bifolchi», e Livia le esprime il suo disprezzo per essere stata da lei spiata e aiutata nella sua corruzione.
Il vecchio mondo si disfà anche in queste sue torbide propaggini sociali, si libera di questi bassi complici, si avvia, con Livia, verso la delazione e la follia, e porta Franz, ubriaco e terrorizzato, a schiantarsi davanti a un plotone d’esecuzione. Senza questa premessa, che investe un contenuto e che lo condiziona anche formalmente, come era necessario che avvenisse, ci sembra impossibile, o quanto meno arduo, comprendere il film. Che cos’è, in effetti, la «forma» di Visconti? Non un’esercitazione stilistica, certo; ma il supporto, anzi la struttura del racconto.
La sensualità non promana soltanto dalle spalle nude e dai capelli sciolti di Livia (una sensualità che diventa perdizione e bruttura, quando la donna, sotto i colpi della passione e della sventura morali, invecchia subitamente, quasi contusa e sporcata dalla colpa e dalla punizione, quasi si disfà fisicamente, ma a dalla morbida luce veneziana in cui le figure di degli amanti passeggiano tra callette e campielli, dal dolcissimo, verde-azzurro paesaggio veneto, dagli affreschi e dai silenzii ombrosi delle stanze e delle arcate della villa.
Così come le scene, il moto della battaglia, i suoi soldati blu e rossi, i suoi fumi, e i suoi fuochi, sono immagini di un vigore e di una gloria che esprimono l’altro elemento dialettico della vicenda, e di quel momento di storia che essa racchiude. Bastano pochi quadri, essenziali; l’attenzione di Visconti si posa sulle tinte e sulle grida di quel melodramma che, iniziato col «Trovatore» sul palcoscenico della «Fenice», continua nel resto del film e sprofonda nel buio rotto dalle fiaccole che illuminano i bianchi fantasmi della fucilazione, le mura di Verona.
Se un difetto ha il film, è quello, forse, di aver troppo insistito nell’immedesimare nei colori di una «coreografia» meravigliosamente coerente e necessaria (il teatro, Venezia, la villa, le campagne, gli interni di alcova) il significato delle passioni rappresentate e giudicate. C’è un continuo trasferirsi di sensi e di sentimenti dei personaggi agli oggetti e all’ambiente, quasi uno scaricarsi allusivo, simbolico della umanità nella struttura, nella materia delle scene su cui tragicamente (ma con una tragicità da opera musicale) si accampa. Se non si tien presente il fondo «fisico» su cui i personaggi si muovono e si congiungono spiritualmente e materialmente, si smarrisce il filo logico della psicologia. Così, nel finale, c’è come una strozzatura; che pure ha un senso: la denuncia, e quella grottesca processione di morte, e la fucileria; le tappe furibonde, il suono secco e rapido di un mondo che crolla.
Alida Valli, nella parte di Livia, è sempre all’altezza della situazione; meno sicuro Farley Granger, più astratto nelle sue ironie e nei suoi isterismi di vinto.
Firenze, 29 gennaio 1955