Sentendo sotto i piedi le tavole di un palcoscenico, Luchino Visconti, il regista teatrale Numero Uno, diventa un ragno. Percorre le quinte quasi a sbalzi e allunga le braccia, piegate ad uncino, in tutte le direzioni. Sembra téssere attorno a sé un impalpabile involucro, e gli oggetti e la recitazione — senza esser visibili — si fanno presenti.

Potere evocativo, e dunque arte della persuasione. Non servirebbe a nulla mettersi davanti a quattro attori e far vedere a ciascuno — con una mimica e una recitazione perfette — quel che deve fare. Questa è bene un’arte, una virtù, ma gli attori non sono scimmie, e il ragno Visconti parla alla loro umanità, li persuade, crea — insomma — la famosa « atmosfera ».

È il segreto del successo di questo giovane regista che nello spazio di due anni ha scombussolato tutti i palcoscenici italiani. Un segreto che non si trasmette, ma che si possiede oppure no. E allora, un quest’ultimo caso, si può essere inappuntabili e onesti registi, ma non oltre. In Visconti, uomo di cultura autodidattica e ostinato lavoratore, c’è l’oltre. Bisogna vederlo alle prove, ci si può entusiasmare più che a spettacolo rifinito. Snoda le braccia, dice poche parole — non urla —, prova e riprova con tenacia, con forza e a poco a poco l’attore parla e si muove in un modo diverso da come aveva incominciato, nasce il personaggio.

Guardate il suo cartellone di quest’anno, che comincia a realizzarsi martedì prossimo con « Delitto e castigo ». Ho parlato con lui fra una prova e l’altra di questa fatica di apertura. Da Anouilh a Sartre, da J. Ford (« Giovanni e Annabella ») a Verga, a Piovene, corre tutto un teatro che scruta nelle forme e nella sostanza la società moderna, e cerca soluzioni, e propone problemi. Quei problemi, per intenderci, che si chiamano problemi sociali.

Qual’è la valutazione di Sartre? Questa è stata una mia domanda. Per l’evoluzione del teatro, quell evoluzione che ancora qui in Italia non si è compiuta. Perché teatro evoluto non vuol dire soltanto testi evoluti, ma, soprattutto, pubblico elevato didatticamente al grado di comprensione delle più moderne conquiste teatrali.

« Se facessi un programma, come quello che ho fatto, senza metterci Sartre, sarebbe come un corso di grammatica senza — per esempio — la lezione sui verbi o sui pronomi ».

Questo modo di vedere il teatro sconcerterà senza dubbio i cuori della « eletta borghesia » che oggi presume di avere adottato questo inquietante regista. Questi cuori fremono di interesse e di « orrore », come per un figlio viziato che ogni tanto fa delle crudeli digressioni. Come perdonargli, per esempio, quella plebea intrusione della « Carmagnola » fra le iridescenze delle « Nozze di Figaro »?

Questo pubblico, insomma, che sinora ha detenuto il privilegio delle platee, non accetterebbe mai che si pensasse di educarlo a capire di più il teatro e, per esso, di più la vita.

Luchino Visconti, è bene dirlo una volta per tutte, va molto più in là dell’essere « croce e delizia » della borghesia. Egli è, piuttosto, soltanto « croce », perché la sua ansia di giustizia sociale, la sua tormentosa ricerca di temi legati alla crisi che si agita nell’uomo moderno, il suo impegno didattico nei riguardi del pubblico, tutto ciò fa di lui un uomo avanzato e progressivo, la cui opera non potrà non essere una condanna ai costumi di quel privilegiato settore che oggi può accedere accedere senza sforzo — e con la sola intenzione di divertirsi — alle platee dei teatri.

Salutiamo dunque in questo giovane regista, nella sua valorosa compagnia, e negli autori che da lui saranno portati in ribalta, un momento nuovo e denso di sviluppi della educazione teatrale italiana.

Basilio Franchina
(l’Unità, Roma, 8 novembre 1946)