Doveva essere l’anno del rilancio del cinema italiano; sarà invece ricordato soprattutto come l’anno degli scandali, dei sequestri giudiziari, dell’“effetto notte”. Che cos’è l’effetto notte? È una soluzione di compromesso concordata fra la Magistratura milanese e i produttori dei film accusati di oscenità, Rocco e i suoi fratelli di Visconti, e L’avventura di Antonioni. Sullo schermo, nei momenti che il magistrato ha indicato come particolarmente scabrosi, grazie alla pazienza dell’operatore di cabina scende una specie di velo e l’azione continua a svolgersi in una mezza luce galeotta. In Rocco questa eclissi avviene quattro volte: durante il primo incontro d’amore di Salvatori e della Girardot; durante la violenza al ponte della Ghisolfa; durante il pestaggio fra Salvatori e Delon e infine durante la discussa scena delle coltellate. Ne L’avventura la notte scende all’improvviso sul giovane Petrucci che abbraccia, sotto gli occhi di Monica Vitti, la figlia di Pierre Blanchar. Pare che l’effetto sia una novità destinata a durare: sarà perfezionato, nella stampa delle copie, con l’uso di appositi filtri, in modo da permettere sonni tranquilli all’operatore di cabina. E anche se il pubblico, che a Milano paga mille lire per vedere i due film “oscurati”, strepita e protesta, la morale sembra salva.

Non ci stupisce l’esistenza di leggi contro l’oltraggio al pudore che si prestano a interpretazioni restrittive e permettono l’intervento nei confronti di un’opera d’arte. Quanti processi sono stati celebrati a tutt’oggi contro Madame Bovary di Flaubert? E in Inghilterra, proprio in questi giorni, non è tornata davanti ai giudici L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence? E negli ultimi anni non sono finiti in tribunale, sia pure per venire assolti con tutti gli onori, Ragazzi di vita di Pasolini e Il ponte della Ghisolfa di Testori? Ma i libri non passano il vaglio di due commissioni di censura, come i film; non sono sottoposti a controllo governativo, con ogni mezzo diretto e indiretto, dalla prima stesura del soggetto alla copia campione. Sicché finora avevamo pensato che un’opera cinematografica, una volta arrivata alla pubblica programmazione, dovesse avere superato tutti i più severi esami al microscopio dei tutori della morale. Ci sono, e sappiamo anche questo, film perfettamente morali che tardano ad arrivare sugli schermi: per esempio Il vigile con Alberto Sordi, spiritosa parafrasi del fatto di cronaca di cui fu protagonista il vigile Melone. Questo film potremo vederlo soltanto dopo le elezioni, perché il produttore ha accettato l’amichevole compromesso offertogli a porte chiuse dalla censura: se non insisti a presentarlo subito, lo passiamo senza tagli dopo il 6 novembre.

La produzione cinematografica non è libera, ma sottoposta a infiniti controlli. L’intervento della magistratura milanese contro i due film di Visconti e di Antonioni ha perciò sorpreso l’opinione pubblica e gettato nella costernazione la gente del cinema. Di fronte a un provvedimento che minaccia il sequestro del film, come potevano reagire i produttori e gli autori? Antonioni ha accettato di apportare i tagli richiesti, dopo averli discussi con il procuratore della Repubblica Carmelo Spagnuolo; erano ritocchi di lieve entità, appena cinquanta secondi in un film che dura quasi tre ore, per moderare l’ardore di un bacio fra Ferzetti e la Vitti, un gesto di Luttazzi nei confronti della principessa Ruspoli, un movimento dei piedi di Dorothy De Poliolo quando attira a sé i biglietti da diecimila guadagnati malamente. Per questi cinquanta secondi di proiezione c’è stato il sequestro della pellicola, la chiusura del cinema Mignon in giornata di sabato, una domenica fitta di incontri e di contrattazioni fra il regista, la produzione e la magistratura. Più grave è il caso di Rocco e i suoi fratelli, dove i tagli richiesti sono meno irrilevanti e alterano profondamente la fisionomia del film. Al momento in cui scriviamo la Magistratura si è dichiarata insoddisfatta dell’“effetto notte” e torna a chiedere la soppressione delle scene incriminate. Lombardo, produttore del film, sembra disposto a scendere a patti; Visconti è più intransigente che mai: e, nel caso di una menomazione dell’opera, annuncia che ritirerà la propria firma e farà causa per danni alla casa produttrice.

Il mondo del cinema, attraverso tutte le sue associazioni di categoria, è in agitazione per l’improvviso apparire di una supercensura che non permette più di dormire sonni tranquilli a nessun produttore. Il compromesso, nel caso di un film incriminato dalla magistratura, è inevitabile: perché scegliere la strada diritta, e giuridicamente ineccepibile, del processo significherebbe troncare la carriera della pellicola, in Italia e all’estero, per almeno due anni, il tempo di arrivare in Cassazione. Nessun produttore può permettersi oggi di tenere immobilizzati dei capitali così a lungo senza compromettere gravemente la propria attività.

Perciò la situazione, mancando la pratica possibilità di un dibattimento chiarificatore nella sede più opportuna, è terribilmente caotica. La protesta dei cineasti, che abbraccia senza esclusioni tutti gli autori e i registi, si è fatta sentire molto vivacemente. La gente di cinema reclama la libertà d’espressione e una norma sicura che divida il lecito dall’illecito, senza possibilità di brutte sorprese a film già programmato. Gli industriali chiedono di venir garantiti contro i pericoli di una moltiplicazione praticamente infinita dagli ostacoli di censura; gli artisti, pur senza violare i confini della morale comune, aspirano alla stessa libertà di cui dispone un romanziere, un pittore o un musicista.

Pretendono troppo? Ma se il nostro Paese è risalito, dopo la guerra, nella considerazione internazionale, una certa parte di merito va anche al cinema. È vero che i film di Rossellini, di De Sica, di Visconti e dei loro epigoni ebbero inizialmente più successo all’estero che in Italia, dove molti sostenevano l’inopportunità di trattare pubblicamente certi temi con la consunta metafora dei “panni sporchi”. Il cinema italiano ha sempre dovuto fare i conti con questa mentalità: per qualche anno, anzi, ne è apparso soffocato. Di film impegnativi non se ne facevano quasi più, era il momento delle commediole trasteverine. E i censori non si preoccupavano troppo delle scollature delle attrici, come non se ne preoccupano ora. Nessuno ha mai fermato la programmazione di certi film comici dove abbondano le scurrilità; nessuno ha mai chiesto l’“effetto notte” per le morbosità di Dracula e compagni; il nudo parziale è tollerato se rientra nei limiti della produzione commerciale; si ammettono scherzi da fureria e doppi sensi ignobili nei commenti dei cinegiornali. Tutto va bene finché i registi non si chiamano Fellini, Antonioni, Bolognini, Visconti. Ne vogliamo una prova?

Scorriamo insieme il calendario dei principali festival internazionali di quest’anno, dove l’Italia ha colto tante brillanti affermazioni rinnovando i successi dei tempi migliori. A Cannes, in primavera, hanno trionfato La dolce vita, gran premio assoluto, e L’avventura, premio speciale della giuria. La dolce vita ha scatenato in Italia i furori dei benpensanti e ha potuto attraversare indenne una polemica incandescente solo per la reputazione di Fellini come regista cattolico e per lo spregiudicato appoggio dei gesuiti milanesi; bisogna aggiungere, però, che il sistema del ricorso diretto alla magistratura (Rocco è stato denunciato da tre privati) non era ancora stato scoperto e che l’“effetto notte” era una conquista di là da venire. L’avventura è considerata il maggiore avvenimento della stagione a Parigi, dove si parla di Antonioni come di un nuovo Ingmar Bergman e non si pensa a misurare col centimetro i baci dei suoi protagonisti; a Milano, ripetiamo, ha subito il sequestro e la censura del cinema, come avviene per i locali di cattiva reputazione.

A Locarno il gran premio l’ha vinto Il bell’Antonio di Mauro Bolognini, dal romanzo di Brancati. Questo film, al suo apparire in Italia, ebbe serie difficoltà con la censura, tanto che la “prima” milanese fu rimandata di una settimana e il pubblico degli invitati, affluito al cinema Apollo, dovette tornarsene a casa; il film fu in seguito ammesso alla programmazione con tagli e modifiche: non solo, ma il produttore Alfredo Bini ha rivelato recentemente che su Il bell’Antonio si sono accanite le piccole censure locali, pretendendo dagli esercenti tagli sempre diversi. Un altro film italiano premiato a Locarno è Morte di un amico di Franco Rossi, da un soggetto di Pasolini. Il film fu bocciato come immorale dalla commissione di censura ed ebbe il permesso di circolazione soltanto in appello. Il terzo film italiano presentato a Locarno, Il peccato degli anni verdi di Leopoldo Trieste, non ha ancora potuto uscire per una serie di impedimenti burocratici che muovono dall’avversione degli ambienti ufficiali all’atteggiamento della protagonista: una ragazza madre che rifiuta un matrimonio senza amore.

A Venezia, come tutti sanno, Florestano Vancini si è portato via il premio per l’opera prima” con La lunga notte del ‘43; anche questo film, tratto da un racconto di Bassani, non è passato senza noie: ai suoi produttori, Jacovoni e Cervi, fu negato il credito bancario. Il che significa, in linguaggio ufficioso, un perentorio consiglio a rinunciare al film. I due giovani produttori riuscirono a farlo con le proprie forze e superarono lo scoglio. Sempre in sede di premiazione veneziana non è senza significato che anche una giuria conformista abbia dovuto ricordare nella distribuzione dei riconoscimenti Rocco e i suoi fratelli. Che la stampa italiana, con un’unanimità pressoché totale, ha del resto proclamato vincitore morale della mostra.

La doppia conclusione della favola eccola qua. Da una parte, è chiaro che non si fanno film di grande impegno artistico senza andare incontro a fastidi. Chi vuol vivere tranquillo deve battere i sentieri del cinema commerciale. Dall’altra parte, non ci sono fastidi per i film d’autore, per quelli che contano.

Per fortuna non siamo più nel 1950, certe bordate creano delle falle nel gran bastimento del cinema italiano, ma non possono colarlo a picco. Gli autori cinematografici sono concordi nella difesa dei loro diritti, i produttori (o, per lo meno, alcuni produttori) hanno imparato che vale la pena di rischiare sulle idee pericolose. E il pubblico? Dopo La dolce vita ha preso, forse per la prima volta, il gusto del cinema italiano: accorre in massa, fa registrare incassi che battono i colossi americani, dimostra la sua preferenza per i film più seri. Adua e le compagne, Labbra rosse, La lunga notte del ‘43 e Kapò sono andati benissimo. Rocco si proietta a cinema esauriti: per la mattinata popolare di domenica scorsa, organizzata dai Giornalisti cinematografici milanesi, il Capitol era stato preso d’assalto fin dalle sette del mattino. Antonioni, apparso al cinema Mignon per controllare i tagli de L’avventura, è stato riconosciuto e acclamato.

La polemica attuale ha riacceso addirittura un interesse per le retrospettive: il Museo della Scienza e della Tecnica a Milano, ha ripreso per uno dei suoi “lunedì” l’edizione integrale de La terra trema di Visconti. Hanno dovuto mandare via la gente. Nel 49, quando La terra trema nell’edizione ridotta cercava spesso invano un’uscita commerciale, mi interessai personalmente per farlo uscire a Trieste. Ma il pubblico e, prima del pubblico, gli esercenti non ne volevano sapere. Gli trovai a stento una collocazione in un cinema di terza visione. Durò due giorni. A mezzanotte del secondo giorno il proprietario mi telefonò: «Basta, non darò mai più retta a voi critici. Smonto il film. Oggi uno spettatore ha schiaffeggiato la cassiera».

Tullio Kezich
Roma, 13 novembre 1960