Roma, dicembre

Il primo fischio contro l’Arialda partì dalla platea dell’Eliseo cinque secondi dopo l’alzata del sipario. «Cominciate presto» commentò una voce ironica dalla balconata, dov’era arroccato tutto il clan di Luchino Visconti. Con un solo sguardo si potevano abbracciare Suso Cecchi e famiglia, Flora e Marcello Mastroianni, Francesco Rosi, Mario Ferrero, Peppino Patroni-Griffi, Renato Salvatori, Nora Ricci, Vittorio Caprioli, Franca Valeri e tanti altri con la grinta delle grandi giornate. Pareva di essere tornati ai tempi delle “storiche” battaglie viscontiane de Il matrimonio di Figaro e de La terra trema. Più che la sorte di un testo nuovo e di uno spettacolo, i gravi incidenti avvenuti con la censura spostavano inevitabilmente l’interesse della serata sulla difesa della libertà d’espressione. E poiché su questo punto i pareri sono purtroppo divisi, una parte del pubblico era venuta a teatro decisa ad applaudire, l’altra parte era invece sensibilizzata a cercare ogni pretesto per disturbare la rappresentazione.

C’era, in ogni modo, un bel colpo d’occhio, con l’Eliseo gremito in tutti gli ordini di posti e un’animazione che a teatro si avverte di rado. «Questa è una prima che non avrà una seconda», avevano detto i bene informati. Nonostante si sapesse che la censura era stata piegata dagli interventi di autorevoli uomini politici, c’era nell’aria il timore (o, per alcuni, la speranza) di una rinnovata proibizione. Quel primo fischio a levar di sipario parve il segno sicuro di una tempesta continua; e invece tutto andò per il meglio: il primo tempo filò liscio, ci furono fragorosi applausi a scena aperta per Rina Morelli e Pupella Maggio, e un’ovazione alla fine. Gli interpreti, come vuole una tradizione imposta da Visconti nel ’45, non si presentarono. E nel foyer affollatissimo i commenti avevano un tono favorevole, qualche volta entusiastico. I componenti del clan viscontiano si scambiavano sorrisi di soddisfazione: «La guerra dell’Arialda — diceva qualcuno — non si farà».

Ma già nella prima scena del secondo tempo gli avversari, che erano stati tranquilli fino a quel momento, cominciarono a farsi sentire. Aspettavano le volgarità, e le situazioni scabrose annunciate dalla censura. Il sottosegretario Helfer non aveva forse definito il copione «la cloaca di tutte le porcherie»? E invece com’era prevedibile per chi conosce e apprezza lo scrittore de La Gilda del Mac Mahon, il linguaggio triviale nel contesto della vicenda non dava alcun fastidio, aggiungeva un tono di autenticità. Le situazioni dell’Arialda, poi, sono quelle che sono: ma perfino nella cronaca dei quotidiani timorati si leggono cose ben più temibili. Sicché il gruppetto degli oppositori, vedendo che non c’erano autentiche provocazioni di linguaggio alle quali attaccarsi, si buttò a sottolineare le battute dell’Arialda contro la Gaetana, la meridionale che le contende l’affetto dell’ortolano Candidezza: “terrona”, “schifosa della bassa”, “Napoli”, “abissina”, “negra” e via dicendo. A ogni battuta si rinnovavano beccate sempre più vivaci: quasi che il brianzolo Testori, con la complicità del milanese Visconti, condividesse il disprezzo del suo personaggio per gli immigrati del sud e non ne fosse, piuttosto, l’accorato registratore. Quando Valeria Moriconi, nelle vesti scarlatte di una “ragazza di vita”, ribadì vivacemente che «i terroni bisogna mandarli all’inferno», le proteste si scatenarono con maggiore energia e lo spettacolo per un attimo parve compromesso.

«È la vendetta del marziano», bisbigliò qualcuno, riferendosi alla caduta clamorosa della commedia di Ennio Flaiano presentata a Milano da Gassman. Perché siamo al punto che il teatro denuncia una delle più incivili fratture della nostra vita nazionale: fra un certo pubblico della capitale politica e della capitale morale corre cattivo sangue. Per taluni romani i milanesi sono avidi, inintelligenti, noiosi; come per taluni milanesi i romani sono parassiti, truffatori e scansafatiche.

Questi pregiudizi si manifestano da qualche tempo con incredibile asprezza nel corso di alcuni spettacoli. Per cui non si fischiano o non si applaudono più Flaiano o Testori, Un marziano a Roma o L’Arialda, ma i campioni del Sud o del Nord, quasi come a una partita di calcio o a Campanile sera. Anche i giornali, ovviamente con maggiore discrezione, si fanno specchio di questo fenomeno: la critica romana è stata tutta per Flaiano e contro la critica milanese; e c’è da scommettere che i “nordisti” tratteranno Testori con maggiore considerazione dei “sudisti”. Un modo un po’ discutibile per festeggiare l’anno dell’unità d’Italia.

L’Arialda, nei suoi pregi e nei suoi difetti, è un testo importante. Visconti ha scelto bene, puntando su Testori, e merita ogni plauso per la sua appassionata difesa dell’opera. Che cosa sia quest’Arialda e che cosa racconti l’hanno scritto in tanti. È un quadro di vita della periferia milanese, che appare ritagliato dai racconti de Il ponte della Ghisolfa. C’è una camiciaia, Arialda Repossi (anzi, Repossi Arialda, come appare nell’elenco dei personaggi), che ha perso da ragazza il fidanzato, morto di tubercolosi; e a quello che chiama il suo “marcione” aveva promesso di rinunciare a sposarsi. Arialda, in un ultimo anelito di gioventù, accetta tuttavia la corte di un vedovo, l’ortolano Candidezza: anche qui confonde i vivi con i morti, la sua attrazione per il maturo spasimante con l’amicizia per la moglie morta. Sicché quando il Candidezza passa ad amoreggiare con la Gaetana, l’Arialda si sente doppiamente offesa e tradita nei suoi morti. Ossessionata dal terrore di restare sola con la voce del “marcione” che le ronza fitta nelle orecchie, l’Arialda ordisce una trama di vendette. Mette la Gaetana contro il Candidezza svelando che i loro figli, Rosangela e Gino, sono legati da un rapporto sentimentale già pressoché incestuoso; poi induce il proprio fratello, Eros, a gettare fra le braccia dell’ortolano la bella Mina. Infine rifiuta ogni solidarietà alla Gaetana disperata e la spinge a uccidersi. La tragedia si chiude su una nota anche più cupa quando il Lino, un amico al quale Eros è morbosamente attaccato, si ammazza con la motocicletta. E l’Arialda, mentre intorno a lei non vede che lacrime e dolore, leva il suo appello ai morti perché scendano sulla terra dove i vivi sono più morti ancora.

Come La Maria Brasca, prima prova scenica dello stesso autore, anche L’Arialda è un grande ritratto di donna, dominata dall’istinto del possesso e dalla gelosia. L’operaia Maria Brasca difendeva con le unghie il suo diritto all’amore di un bellimbusto, Romeo Camisasca. L’Arialda è una Brasca invecchiata, alla quale il Camisasca è morto troppo presto: e che difende con lo stesso impeto, ma ormai senza speranze e in chiave patologica, il suo anelito alla felicità. Il teatro di Testori passa dal bozzetto paradialettale alla tragedia, con un occhio agli elisabettiani. L’Arialda, assediata nel suo casone di periferia da tutti i morti di un’esistenza miserabile, ha la statura ambiziosa dei veri personaggi teatrali. Questa volta lo scrittore di Novate Milanese ha chiarito la propria aspirazione di drammaturgo, che è quella di scoprire i fondi tragici dell’esistenza. Ed è proprio nel personaggio dell’Arialda, pur mantenuto in maniera un po’ monocorde sul registro ossessivo, che gli è riuscito di toccare una nota autentica, inquietante, ricca di promesse. Anche perché fra le mani di una Rina Morelli memore di Un tram che si chiama Desiderio questa zitella isterica è diventata eroina di una tragedia moderna: per la prima volta non piagnucolosa o crepuscolare, ma con i toni, la mimica, l’autorità del grande teatro.

Tuttavia L’Arialda non appare ancora un punto d’’arrivo per il lavoro di Testori. La messa a fuoco dei personaggi che contornano la protagonista non è altrettanto precisa, lo sviluppo dell’azione è a tratti confuso, l’orchestrazione dei temi secondari rivela inesperienza. Se l’intenzione dell’autore, come appare da alcuni accenni, era anche quella di dare intorno all’Arialda il brulichio della vita di quartiere, un’immagine magari fuggevole di un mondo d’anime morte, bisogna dire che tale intenzione non si è pienamente realizzata. Dato per lecito un riferimento a Carlo Bertolazzi, siamo ancora lontani dalla compiutezza cronachistica di certi pannelli di El nost Milan. Ma è probabile che Testori rifiuti decisamente queste suggestioni per tentare la difficile strada della tragedia plebea, ancor più svincolata dal quadro d’ambiente. È uno scrittore serio, sa quello che vuole e ha davanti a sé un imponente programma di lavoro: lo aspettiamo con fiducia alle prossime prove. Visconti ha inquadrato L’Arialda in un paesaggio di periferia ideato da lui stesso: una prospettiva di spezzati fotografici con i moderni falanstieri che hanno occhi e orecchi per le tragedie di tutti; i pallidi lampioni, le panchine, la squallida camporella con il filo di ferro, perfino l’autobus che passa lontano sul ponte, come i trenini elettrici nelle vetrine natalizie. E se il pubblico non sente le voci dei morti che tormentano l’Arialda, è scosso dal fragore della motocicletta del Lino, dalla voce di Mina (quella vera, la reginetta di Canzonissima) che canta Coriandoli, dalle ricorrenti invettive dei personaggi contro il cielo grigio e la puzza degli stabilimenti industriali. È la suggestiva cornice di uno spettacolo di indiscutibile maestria, semplice, addirittura antiregistico. Fra gli interpreti spiccano Pupella Maggio, la stupenda attrice napoletana di Sabato, domenica e lunedì, e un terzetto di giovani in gran forma: Umberto Orsini, che mostra ormai una sicurezza e un piglio da attore consumato; Valeria Moriconi, aspra insolita, ricca di personalità, e la sorprendente Lucilla Moriacchi, che sa tener testa a un “mostro sacro” come la Maggio in una drammaticissima scena fra madre e figlia. A Paolo Stoppa la distribuzione ha riservato una di quelle che una volta si chiamavano “parti di favore”: si rifarà con Caro bugiardo.

Al passivo della recita si devono mettere un paio d’interpreti decisamente inadeguati e una strana monotonia che affiora qua e là nel concertato della seconda parte. Lo stesso dispositivo scenico, pur lineare e suggestivo, ha il difetto di interrompere l’azione a ogni cambiamento di quadro, con dei siparietti accompagnati da certe sibilline melopee del maestro Nino Rota che quasi non si sentono, coperte come sono dal brusio e dai colpi di tosse del pubblico.

Alla fine Visconti pareva molto soddisfatto di vedere che le ovazioni subissavano senza sforzo i contrasti e indicava, con gesti ironici a Testori, che gli stava vicino sul palcoscenico, i pochi dissidenti. Il pubblico sfollò discutendo fittamente, come ai bei tempi. E intanto tutta la Roma cinematografica e teatrale faceva la fila davanti ai camerini del Conte, della Morelli e di Stoppa. Testori, accaldato e commosso, telefonava a Novate per dire a casa com’era andata. Poi stringeva in fretta mani di amici e di sconosciuti per salire di corsa alle Stanze dell’Eliseo, dove aveva fatto preparare una cena fredda tutta lombarda come I segreti di Milano.

Tullio Kezich, 3 gennaio 1961