La personalità del famoso regista è in questo momento al centro di una polemica che divide i teatranti. Dopo il fallimento della compagnia di Lilla Brignone, la clamorosa protesta di Enrico Maria Salerno e la mediocre accoglienza alla farsa americana della Morelli-Stoppa, il panorama della prosa appare confuso

Milano, 29 gennaio 1959

Per mezz’ora Lilla Brignone si è sfogata con Vittorio Gassman. Ha gridato, ha pianto, ha minacciato. L’attore ascoltava freddo e distante, senza dire una parola. Poi dalla platea è partito un applauso che ha fatto tremare il ridotto dell’Eliseo. Gassman ha subito smesso di fare “Il bell’indifferente”, il personaggio del monologo di Cocteau, e ha abbracciato con affetto la grande attrice, in omaggio alla quale aveva accettato di recitare, per la prima. volta, una parte muta. In sala. si accalcava una folla di volti famosi nel mondo dello spettacolo. Anna Magnani, Alberto Sordi, Aroldo Tieri ed Elisa Cegani non la smettevano più di applaudire. La Brignone ha dovuto stringere centinaia di mani e ricevere dozzine di baci sulle guance. Non ha fatto neppure in tempo a leggere i biglietti di tutti i fiori che le avevano mandato.

Da un po’ di tempo gli amici trattano “la Lilla” con un eccesso di cautela e di tenerezza, come fosse scampata da un naufragio o uscita da una grave malattia. In realtà, niente di così tremendo è capitato all’attrice. Il 30 novembre, a Firenze, la sua compagnia ha chiuso la gestione con un anticipo di parecchi mesi e un danno finanziario che sembra ammonti a circa quaranta milioni. Gli attori sono stati liquidati al cinquanta per cento della paga intera, come prevede il contratto nazionale. Hanno già avuto una percentuale del compenso e avranno il saldo fra poco. Corrado Pani, che nello sfortunato dramma “Veglia la mia casa, Angelo” di Ketti Frings aveva la parte sostenuta a Broadway da Anthony Perkins, ha subito trovato lavoro nel romanzo televisivo “L’isola del tesoro”. Annibale Ninchi ha approfittato dell’imprevista vacanza per recarsi a Pesaro, dove lo chiamavano interessi familiari. Mario Valdemarin, che alcuni critici avevano definito la rivelazione dello spettacolo, è in Riviera per interpretare un fotoromanzo. Adriana Asti lavorerà presto in TV. Il danno finanziario sarà ripartito fra i quattro impresari della compagnia: Carlo Alberto Cappelli, Lars Schmidt, il regista Luchino Visconti e un industriale milanese. Sembra che Visconti intenda assumersi anche il debito del terzo marito di Ingrid Bergman, per il quale deve dirigere in settembre, a Parigi, “Annibale alle porte” di Sherwood. L’incidente non è stato piacevole per nessuno, ma non ha neppure avuto conseguenze drammatiche. L’assenza di Lilla Brignone dalle scene non è durata più di quaranta giorni.

Il fallimento di “Veglia la mia casa, Angelo” ha scatenato una grossa polemica, che bolliva in pentola già all’indomani della discussa ”prima” romana. Visconti è stato accusato di aver scelto una commedia sbagliata, di averla diretta male e soprattutto di aver impostato un allestimento troppo costoso. A cinquantadue anni, Luchino Visconti è uno dei registi più acclamati del mondo. Buona parte delle battaglie in favore di un teatro moderno, combattute in Italia nell’immediato dopoguerra, sono state fatte in suo nome. È stato Visconti, con pochi altri, a dare un deciso colpo di timone alla scena italiana. Ha imposto un concetto unitario dello spettacolo, ha rivoluzionato la messinscena, ha cercato in ogni modo di rafforzare il legame fra il teatro e i problemi dell’uomo moderno. Nel corso di quest’opera, che dura ormai da quindici anni, ha alternato spettacoli memorabili con altri meno riusciti, ha commesso parecchi errori, ma il frutto del suo insegnamento è ormai riconoscibile: il teatro italiano del ’59 è indiscutibilmente migliore di quello di vent’anni fa. Chi ha buona memoria può fare i confronti.

Visconti non è un uomo facile. Gli attori che hanno lavorato con lui lo giudicano troppo esigente, qualcuno lo definisce addirittura spietato. Non scende a compromessi, quando ha in mente un effetto desidera ottenerlo a qualsiasi prezzo: attorno al suo personaggio esiste un’aneddotica ricchissima. Una volta, alle prove dell’”Euridice” di Anouilh, tenne gli attori in teatro tutta la notte perché il fischio di una locomotiva non gli suonava giusto. Un’altra volta, mentre preparava “Il crogiuolo” di Miller, protestò un paio di interpreti con una violenza verbale che provocò un’ondata di riprovazioni. A Venezia, quando la giuria presieduta da René Clair non volle assegnargli il Leone d’oro per il film “Le notti bianche”, ebbe davanti alle telecamere un’uscita sarcastica che gli alienò molte simpatie e gettò in una crisi di disperazione la sua intervistatrice, Emma Danieli.

Gli avversari di Visconti (ce ne sono a centinaia: non si ribalta una tradizione senza tirarsi addosso molte inimicizie) sostengono che la sua rivoluzione ha fatto più male che bene al teatro italiano. Proviamo a seguire il filo dei loro ragionamenti. Gli spettacoli di Visconti sono delle grosse macchine al servizio di testi poco interessanti.

Il costo astronomico delle singole messinscene ha limitato il giro delle compagnie e favorito l’abbandono dei teatri di provincia. Il complesso riunito per un solo spettacolo ha ucciso la vecchia compagnia di repertorio, con programmi che cambiavano più volte ogni settimana: il pubblico va meno a teatro anche perché ogni spettacolo sta su troppo a lungo.

“Veglia la mia casa, Angelo” è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Visconti: contava sulla suggestione del romanzo dal quale è tratto il dramma della Frings, ma Thomas Wolfe è uno scrittore meno noto di quello che meriterebbe, almeno in Italia. Il copione, che negli Stati Uniti si replica da quasi due anni e ha ottenuto il premio Pulitzer e quello della critica, è stato giudicato scadente. L’insuccesso economico delle repliche a Roma ha provocato la decurtazione del periodo messo a disposizione della compagnia da Remigio Paone al Nuovo di Milano. La Brignone ha dovuto prendere così la via dei teatri di provincia, con una messinscena inadatta e ingombrante, che solo per il trasporto costava oltre il doppio del foglio-paga dell’intera compagnia. Lo scioglimento è stato deciso tempestivamente, per evitare un danno economico maggiore. Negli ambienti teatrali il commento più diffuso è che la compagnia avrebbe dovuto sciogliersi prima, a somiglianza di quanto si fa in America: se uno spettacolo non va, meglio chiuderlo subito.

Il processo a Visconti, aperto clamorosamente dalla cattiva sorte di “Angelo”, ha avuto una pubblica udienza alla prima romana de “I ragazzi della signora Gibbons”, una farsa americana di Glickman e Stein. Questa volta l’infortunio è stato ammesso anche dagli amici di Visconti. Paolo Stoppa, che è sempre molto attivo nell’assicurarsi i copioni stranieri di maggiore successo, sperava di fare un buon colpo con questo spettacolo. In una stagione dove le novità sono particolarmente tetre (i titoli vanno da “Requiem per una monaca” a “Il buio in cima alle scale”) una farsa scatenata sulla falsariga di “Arsenico e vecchi merletti” poteva rappresentare un’alternativa piacevole. Alle prove, però, il canovaccio si rivelò inconsistente.

Gibson diventa Gibbons

Visconti, che s’era assunto la regia senza troppo entusiasmo, forzò i limiti della farsa, puntando a un risultato violentemente grottesco. Non fu una decisione felice. Le prove continuarono in un’atmosfera di sfiducia. A un certo punto qualcuno fece notare che il cognome dei protagonisti della commedia, Gibson, era lo stesso dell’autore di “Due sull’altalena”, uno. spettacolo che in Italia è finito male prima di nascere. Anche gli attori intellettuali sono superstiziosi: Stoppa decise di cambiare subito il cognome in Gibbons.

La sera della prima, le maschere dell’Eliseo distribuivano al pubblico un’elegante pubblicazione intitolata: “Venti spettacoli”, la brillante cronistoria del sodalizio Visconti-Morelli-Stoppa dal ’45 a oggi. Non si sarebbe potuto scegliere occasione peggiore per la celebrazione. La farsa di Glickman e Stein coronava assai male la storia della compagnia. Alla fine non mancarono i fischi.

Non tutti vanno male

Se la personalità di Luchino Visconti è in questo momento al centro della polemica che divide il teatro italiano, vi sono altri aspetti della crisi che non vanno trascurati. Giancarlo Sbragia, che rappresentava “Ricordo con rabbia” di Osborne, ha dovuto anche lui licenziare in anticipo la compagnia. Fausto Tommei, dopo un tentativo di portare degli spettacoli nella provincia lombarda, ha rinunciato. Altre compagnie stanno affrontando delle grosse difficoltà: inutile fare dei nomi, perché c’è sempre la speranza che gli incassi salgano. A Roma, dove le provvidenze governative hanno fatto nascere una decina di teatrini semistabili, si hanno a volte borderò inferiori alle diecimila lire. In alcuni teatri stabili di provincia le serate non sono molto più allegre.

La situazione è decisamente caotica, tanto da giustificare le più curiose prese di posizione. Un attore molto noto, Enrico Maria Salerno, si alzò una mattina dello scorso dicembre e decise che non voleva più recitare. « Il nostro mestiere si è abbassato ‘a un livello ignobile — dichiarò ai giornalisti. — Voglio abbandonarlo prima che i miei figli debbano vergognarsi del loro padre ». La notizia corse le redazioni dei giornali, suscitando il più vivo stupore. Si lesse che Salerno aveva deciso di farsi frate: ma l’attore precisò che avrebbe preferito trovare un posto come custode di un teatro dei Settecento in qualche angolo remoto della provincia italiana. La ricerca di questo teatro gli porterà via un certo tempo, perché intanto rivedremo l’attore interpretare Mercuzio nel ”Romeo e Giulietta” della TV. Molti hanno sorriso alle dichiarazioni polemiche di Salerno, conoscendo il suo carattere focoso. Quando si hanno trent’anni e un talento come il suo, è difficile farsi prendere sul serio dando l’addio alle scene, Anche Salerno, in qualche modo, ci ha fatto tuttavia capire che qualcosa non va nel teatro italiano.

Il panorama, intendiamoci, non è tutto nero. Se bazzicate i camerini degli attori, troverete in molti palcoscenici musi lunghi, facce scure e occhi levati al cielo. Ma altrove vi capiterà di assistere a manifestazioni di giustificata euforia. La compagnia De Lullo-Falk-Guarnieri-Valli-Albani, per esempio, conosce la cristi solo attraverso i giornali e le recriminazioni dei colleghi, che incontrano al ristorante dopo lo spettacolo. “D’amore si muore” di Giuseppe Patroni Griffi va a gonfie vele: quaranta repliche a Roma, bellissimi teatri a Milano, una media di incassi invidiabile. Lo stesso si può dire per Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi, che hanno imposto uno spettacolo pericoloso come “Requiem per una monaca” di Faulkner-Camus e si difendono splendidamente anche con “Gli spettri” di Ibsen. “La pappa reale” di Marceau ha fatto al Manzoni di Milano il periodo delle feste con un esito soddisfacente. Il sorriso di Paolo Grassi, nella cabina di comando del Piccolo Teatro di Milano, è più eloquente del borderò: oltre ottanta repliche de “L’opera da tre soldi”, con i pullman che rovesciano in via Rovello gli appassionati della provincia e la pianta del teatro adeguatamente “dipinta di blu”. Non parliamo poi di “Irma la dolce”, lo spettacolo musicale allestito da Vittorio Gassman per Annamaria Ferrero: anche a Roma, come a Milano, fa gli incassi della rivista.

Come mai questi spettacoli, a differenza di altri, hanno successo? È proprio vero che il pubblico non vuol più saperne del teatro? C’è una via d’uscita alla crisi attuale? Sono domande assai complesse, alle quali nessuno può rispondere compiutamente,. In questa materia, come avverte l’esperienza di ogni teatrante avveduto, il toccasana non esiste. Se tuttavia il ’59 ha portato una novità, è un desiderio di vederci chiaro. La gente del teatro si sta abituando a riflettere sul proprio lavoro, a prevedere i guai prima di esserci dentro fino al collo. I progetti per la prossima stagione stanno già maturando. Siano adeguatamente reclamizzati, come la famosa Tendacirco di Gassman, o tenuti segreti, hanno tutti un fondamento razionale. Una legge per il teatro è pronta per venir presentata alla discussione degli organismi competenti. Non è ancora uno strumento perfetto, ma costituirà un passo avanti. Nella prossima puntata di quest’inchiesta, vedremo quali possono essere i rimedi ai mali che affliggono il nostro teatro, e sentiremo l’opinione di alcune fra le più notevoli personalità del momento, da Luchino Visconti a Paolo Grassi, da Remigio Paone a Romolo Valli, da Giorgio Albertazzi a Vittorio Gassman.

Tullio Kezich