Piazza della Pilotta, a Roma è tra le più «spettacolari» piazze della Capitale. Se ci sbuchi dall’Arco omonimo o dall’intrico delle viuzze che si dipartono dal Corso o dalla galleria Colonna, la prima cosa che ti colpisce è quel suo aspetto di eterno palcoscenico che attende protagonisti e coro. I quali, in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo, giungono puntuali oggi sulla piazza — così come puntuali vi giungevano negli anni di cui stiamo per parlare — sotto l’imperiosa pressione d’un invisibile regista, ed animano d’incanto quella gustosa scenografia, che reca, da un lato, la pompieresca mole biancastra dell’Università Gregoriana, dall’altro, la squallida parete grigio-rossa d’un’antica caserma e dagli altri ancora la grazia barocca di due vecchi palazzi aristocratici giallo-arancioni.

Il coro è rappresentato, da una parte, dai preti, allievi dell’Università Gregoriana e, dall’altro, dai soldati, ospiti della caserma. Tanto i primi che i secondi invadono il palcoscenico a ore precise. Con le sottane nere, viola e rosse svolazzanti, giovani preti delle più svariate nazionalità si infilano accigliati su per gli scaloni marmorei dell’Università, la mattina, e poi, a mezzogiorno, eccoteli sciamare per la piazza, in coppia o a gruppetti, chiacchierando fittamente. I giovani soldati li ascolti, all’ora della libera uscita, premere allegramente il selciato con gli scarponi e in un battibaleno li ritrovi sul Tritone. Agli uni e agli altri s’intrecciano gli abitanti dei due palazzi e i passanti frettolosi.

I protagonisti, invece, possiamo indicarli, da una parte, nelle alte personalità della gerarchia ecclesiastica, le quali di tanto in tanto, giungono all’Università: scendono da grosse macchine, profondamente ossequiate dal portiere; dall’altra, nelle alte personalità della gerarchia militare: scendono rigide da grosse macchine, tra i clamori delle trombe.

Un’altra tromba, quella del silenzio, rompe la quiete della piazza, di sera, partendo languida dall’interno della caserma, quando all’invisibile regista di Piazza della Pilotta non restano più né coro né protagonisti cui dar ordini.

È su questa piazza «spettacolare» che, fino a dieci anni fa, la rivista Cinema, «vecchia serie», aveva la sua sede redazionale. Precisamente al pianterreno di uno dei palazzi nobiliari che più sopra abbiamo ricordato. Dalle finestre, con tanto di sbarre, delle poche stanze di cui la redazione era composta, per molto tempo abbiamo assistito al quotidiano spettacolo della comparsa dei preti e dei soldati.

Ma è qualche singolare episodio svoltosi all’interno della redazione negli ultimissimi anni di vita della gloriosa rivista che intendiamo ora ricordare, quando, tra il 1940 e il 1943 direttore della rivista era uno dei figli del «duce»: Vittorio.

Uno strano direttore, in verità. Troppo preso dietro commerciali speculazioni nel campo della produzione cinematografica e troppo occupato a crearsi glorie aviatorie per interessarsi profondamente dell’arte cinematografica. Tanto meglio, d’altra parte: non mancava davvero in redazione chi al cinema credeva con tutte le forze e con prospettive assai diverse da quelle di «Vi», come lo chiamavano certi intimi. Tuttavia, di tanto in tanto, la sua macchina si fermava dinanzi al portone del palazzo di Piazza della Pilotta. Eugenio, l’usciere, un uomo dal volto ossuto, pateticamente affamato, lo accoglieva, mescolando gli inchini al saluto romano, gli occhi interrogativi e un abbozzo di sorriso. «Vi», che, fondamentalmente, era un timido, carico idi «complessi» fin sui capelli biondicci, esplodeva, appena dentro in atteggiamenti di tipo paterno: parlava rapido, ad alta voce, recando le mani alla cintola, le gambe a compasso e il mento all’insù. Poi si quetava, di colpo, sprofondando il corpo pingue su una poltrona, il volto assente e inespressivo.

In alcune occasioni lo ricordiamo addirittura furente. Una volta, ad esempio, quando, di ritorno dall’aeroporto di Pisa, venne informato ch’era lì lì per uscire un numero doppio di Cinema, completamente dedicato alla danza nel cinema. « C’è la guerra — tuonò — la guerra, dico, e voi mi uscite con un numero interamente dedicato alla danza. Un numero interamente dedicato alla guerra nel cinema, ecco quel che ici vuole!… »: Passarono le quindicine: quel numero i redattori di Cinema non lo hanno mai preparato.

Un’altra volta s’imbestialì quando, scorrendo un numero di Cinema, uscito di fresco, il volto di non ricordiamo più quale attrice del cinema americano gli apparve davanti agli occhi. Si era al tempo di poco antecedente al discorso del «bagnasciuga». Il cinema statunitense già da parecchio tempo era stato proibito in Italia. Quella foto era stata ritagliata, se ben rammentiamo, da un numero di Theatre Arts, che circolava per la redazione, avidamente letto dai redattori di Cinema. Pallido in volto, «Vi» investì il suo segretario, il quale, anche lui, partecipava alla redazione della rivista, piuttosto ignaro delle idee che covavano nella mente degli altri. « Ci vogliamo mettere in salvo, eh? »
— tuonò «Vi», agitandogli sotto il naso il foglio.con la foto incriminata — « gli anglo americani invadono la Sicilia, eccoli a Roma e voi gli mostrerete la mia rivista con la foto di una loro attrice!… ». Il segretario gli rispondeva di no col capo, melensamente.

Parecchi mesi prima, alla fine del 1942, «Vi» era stato accolto da un altro attacco di bile, allorché aveva appreso che Gianni e Dario Puccini erano stati ficcati in galera dalla polizia fascista.

Era andata così: appena appresa la notizia dell’arresto ci eravamo precipitati in redazione per rendere edotti alcuni amici dell’ avvenimento. Frenando il più possibile l’emozione e atteggiando il volto a una compunta meraviglia unita a un filo di indignazione avevamo narrato la cosa: l’arrivo, all’alba, dei poliziotti, la perquisizione, l’arresto. « Se Gianni passa la giornata tra redazione e casa… Una simile accusa, com’è possibile? », andavamo ripetendo. Domenico Purificato, ricordiamo, fingeva di leggere attentamente un articolo, così attentamente che non superava mai la prima pagina.

Allora «Vi» intervenne, le telefonate si susseguirono e, alla fine, egli sbottò: « Altro che redazione e casa! Mi risulta che i Puccini sono degli antifascisti! ». Allargammo ancora una volta gli occhi in un gesuitico stupore. Il cuore ci ballava nel petto, accanto a un’infinita fierezza per i compagni ch’erano «caduti» nella lotta contro il fascismo.

In conseguenza all’arresto ricordiamo che vennero tenuti infiniti conciliaboli nella stanza del direttore per stabilire come fare per rimediare a una grossa «grana»: una Enciclopedia del cinema a puntate, infatti, stava allora uscendo a firma: Gianni Puccini e Francesco Pasinetti. Sopprimere dal numero in preparazione tout court l’Enciclopedia? Impossibile. Togliere dagli articoli il nome di Gianni Puccini? Impossibile. Alla fine «Vi» stabilì solennemente che gli articoli sarebbero continuati ad uscire, ma siglati: G.P. e F.P.!

Ma se agli occhi idi «Vi» il «caso Puccini» dovette apparire come un caso clamoroso, che, tuttavia, neppure in un senso poliziesco, (di andar, cioè, a frugare, di numero in numero, tra le righe degli articoli della rivista per scovarvi tutti quei modi anticonformisti che vi erano sparsi notevolmente), riuscì ad aprirgli gli occhi — tanto i tempi rotolavano rovinosi sul fascismo — a nessun gerarca fascista — quelli del Minculpop alla testa — riuscì mai di affermare quale, sia pur lenta, frantumazione degli «ideali» di un certo tipo di cinema che il regime cercava di imporre agli italiani veniva condotta dal gruppetto di giovani raccolti intorno a Cinema sulla coscienza dei lettori della rivista, frantumazione che ebbe senz’altro un suo peso nella formazione di una base di discussione nuova per le esperienze neo-realistiche del dopoguerra. Basti ricordare certi articoli di Gianni Puccini, di Massimo Mida, di Luchino Visconti, di Carlo Lizzani, di Ugo Casiraghi, di Glauco Viazzi, di Lorenzo Quaglietti e le critiche pungenti di Peppe De Santis.

In tutto questo periodo Cinema ebbe, in un certo senso, anche altri uffici redazionali, oltre ché quello di Piazza della Pilotta: in casa Puccini, in casa Visconti, il quale, allora, abitava ai Parioli, in casa De Santis, dove convenivano per discutere giovani comunisti, come Mario Alicata e Pietro Ingrao, al Centro di Via Tuscolana, quando, tra gli altri, contava quali allievi Michelangelo Antonioni, Leopoldo Trieste e Massimo Mida e quali maestri Umberto Barbaro e Luigi Chiarini. Le vivaci dispute che in questi luoghi si andavano tenendo quanto spesso si tramutavano, poi, in articoli su Cinema!

A casa Visconti, trasferitosi più tardi nella villa di via Salaria, nacque « Ossessione ». La presentazione su Cinema di alcuni fotogrammi del film non piacque a «Vi», così come non gli piacque il film.

Si era a fine estate, nel 1942. Una serie di film americani, «catturati» su una nave statunitense, furono proiettati, sotto gli auspici di Cinema, al CIM, in quella saletta che oggi risponde al nome di Cinema Arcobaleno. Tutto il mondo del cinema convenne a quelle «prime» d’eccezione e, dopo tanti anni di cinema «autarchico», ricordiamo che perfino il modesto «Mago di Oz» apparve come un capolavoro agli spettatori pigiati nella saletta. Ogni film si concludeva, dunque, tra frenetici applausi, i quali dovevano soprattutto apparire eccessivi al figlio del «duce ». «Vi», tra l’altro, prima che la guerra scoppiasse, era ritornato profondamente irritato da un suo viaggio in America, dove, a Hollywood, alcuni attori, tra cui Joan Crawford, erano giunti al punto di non partecipare a un pranzo offerto in suo onore da Goldwyn! «Vi» aveva espresso tutto il suo malumore contro la «plutoebraica» democrazia statunitense, oltre che in redazione, in un suo articolo sul «Messaggero», firmato con lo pseudonimo di Tito Silvio Musino.

Accanto ai film americani, al CIM venne presentato « Ossessione ». Un’Italia inedita, mai vista sui documentari LUCE apparve agli occhi degli spettatori. Entusiastici applausi «a scena aperta» e alla conclusione del film accolsero la proiezione. Appoggiati al muro, in fondo alla saletta, semiasfissiati dalla calura e dall’emozione, assistevamo alla «primissima». C’era anche Visconti. «Vi», quando la luce tornò, sbattè la poltrona rabbiosamente e a voce alta, rapidamente, proprio come papà, pronunciò la frase storica: « Questa non è Italia! ». Luchino, frattanto, stringeva mani e mani commosse e sbalordite.

Un giorno giunse il 25 luglio. E una mattina il gruppo dei giovani che sulla rivista Cinema si era battuto per un cinema strettamente legato alla realtà penetrò nella redazione di Piazza della Pilotta. Le finestre con le inferriate vennero da quei giovani spalancate sulla consueta scenografia di Piazza della Pilotta, che attendeva quel coro e quei protagonisti, che, in quei giorni, andavano giungendo assai meno puntualmente sul palcoscenico. Quasi puntualmente, invece, uscì Cinema: fu l’ultimo della «vecchia serie». Sarebbe piaciuto meno che mai a «Vi».

Aldo Scagnetti
Roma, gennaio 1954