«Non mi considero un mostro sacro; mai sono stato cosi vivo, fervido e scomodo come adesso»
(Nostro servizio particolare)
Roma, 6 marzo. Quando la luce si è accesa sull’ultima inquadratura di Morte a Venezia, nella sala cinematografica dove si era svolta la serata di gala per l’anteprima italiana del film di Visconti, un prolungato applauso è scrosciato e il pubblico, in piedi, si è messo a cercare con lo sguardo il regista e gli interpreti. Composto dalle belle donne di stagione, da ministri, intellettuali, ricchi borghesi e sofisticate signore, era il pubblico più chic che si potesse radunare a Roma per una « prima », anche se durante la proiezione — mediante squittii di ammirazione per particolari descrittivi, o sussulti di futile vivacità in momenti di straziante commozione — si era qualificato come il meno adatto ad apprezzare un film rigoroso e poetico come Morte a Venezia.
Interpreti e amici
Il regista non nasconde la sua soddisfazione. Questa sua ultima fatica trova ampia risonanza in tutto il mondo. I giudizi dei critici sono per lo più entusiasti. Le previsioni degli incassi sono confortanti. L’ammirazione del pubblico è esemplificata da questa folla che si accalca intorno a lui e quasi non ha occhi per la bellissima Marisa Berenson, truccata e vestita come un figurino uscito dalle pagine di Vogue, che gli sta a fianco, per l’efebico Bjorn Andresen, che è guardato a vista dalla nonna e si trastulla con un sacchetto di plastica pieno di caramelline rosa.
A tutti, sulla soglia del cinematografo, Visconti distribuisce sorrisi, strette di mano, ringraziamenti, senza affettazione e altezzosità. Sospinge poi verso le macchine messe a disposizione dai produttori del film gli amici più cari, i fedelissimi della sua corte, gli interpreti e i collaboratori di Morte a Venezia, i registi oggi affermati che con lui hanno imparato il mestiere. Li invita a cena, vuole averli tutti vicini.
Nel ristorante, presso via Veneto, la sala migliore è riservata a lui. Siede capotavola, la testa, eretta, i capelli grigi tagliati corti a spazzola, lo sguardo penetrante che non trascura nessuno. La conversazione è animata, a tratti corale a tratti frantumata intorno a piccoli gruppi, saltando da un argomento all’altro. L’atmosfera è la meno adatta per parlare di lavoro o per provocare un dibattito. Nonostante ciò, azzardiamo: tutte le sue opere hanno sempre suscitato, insieme con gli entusiasmi, diffidenze, inquietudini, talora aperte ostilità. Questa valanga di consensi che Morte a Venezia ha riscosso non la preoccupa in qualche modo, non suscita in lei magari il sospetto di aver fatto qualche concessione?
Ora tocca a Proust
« L’approvazione non dà mai fastidio — risponde Visconti —. Le critiche che ho letto sono di persone che stimo e le lodi non possono che farmi piacere. I giudizi espressi mi hanno dato l’impressione d’essere stato capito nelle mie intenzioni. È stata riconosciuta la fedeltà allo spirito dell’opera di Mann più che l’aderenze al testo letterario, è stato insomma compreso proprio quello che volevo dire ».
L’esperienza che lei ha compiuto può in qualche misura influenzare il suo prossimo lavoro, cioè la versione cinematografica della Recherche du temps perdu di Proust?
« L’approdo a Proust non è né occasionale né improvviso. Ma ci sono preparato da anni. Ci arrivo dopo essere passato attraverso tutte le mie esperienze professionali, culturali e di vita. È un film che non avrei potuto fare vent’anni fa. Solo oggi, avvalendomi della maturità che ho raggiunto, lo affronto con la fiducia di non fallire il bersaglio ».
La sua « carriera » d’artista, pur con tutti i successi e i riconoscimenti che le sono venuti, non è mai filata liscia. Per almeno trent’anni lei ha fatto impazzire produttori, censori, giurati, commissioni di festival, donne timorate e pruriginosi borghesi. Ma da un po’ di tempo la situazione è cambiata. Lei vince a Cannes (Il Gattopardo, vince a Venezia (Vaghe stelle), vince il premio dei Lincei. Adesso tornerà a Cannes. Non c’è pericolo che, di questo passo, finisca per essere punito magari vincendo l’Oscar?
« Cioè che venga etichettato, imbalsamato, considerato come un “mostro sacro” che ormai non fa più paura? Direi proprio che questo pericolo non c’è. Non ho nessuna intenzione di farmi irreggimentare. Non mi sono mai sentito più vivo, fervido e “scomodo” di adesso ».
Liliana Madeo
(La Stampa)