Roma, Febbraio 1952 (Luchino Visconti regista principe del teatro italiano 1)

Nessuno può negare a Visconti, pur nella linea coerente della sua azione, una evoluzione. Si è servito ai suoi inizi di Cocteau, di Achard, di Anouilh, di Sartre, di Williams; ma intanto toccava Beaumarchais, toccava Shakespeare, Alfieri. L’ultima sua regia, per Morte d’un commesso viaggiatore, era di una purezza evidente; e nei propositi futuri c’è Brecht, Madre coraggio, e un’opera di Cecov, Le tre sorelle.

Che Achard, Cocteau, Anouilh, Sartre, Williams siano stati solamente dei mezzi, che Visconti se ne sia ampiamente servito sia da un punto di vista sperimentale, per tentare le sue capacità e le reazioni del pubblico, sia, il che è accaduto più spesso e con molta evidenza, per esprimere attraverso di essi il suo modo di concepire il mondo, i rapporti tra gli uomini, le necessità da cui nascono i fatti, i sentimenti, mi sembra assolutamente evidente. In mancanza di un materiale migliore, Visconti ha utilizzato tutto quel repertorio che gli consentiva di mettere l’accento sulla situazione « critica » della società odierna. Il « carrozzone » dei Parenti terribili, la stanza « a porte chiuse » di Sartre, la stazione metafisica di Euridice, le camere d’albergo di Madrid nel dramma di Hemingway, la provincia morbosa della Macchina da scrivere, la prigione de Lo zoo dì vetro, il « pozzo » contornato di grattacieli del Commesso viaggiatore, la scala, il cimitero e le prostitute danzanti di Delitto e castigo sono altrettante figurazioni, diversamente disegnate, dello spazio nel quale vive, disperato e solo, l’individuo moderno, il vile, l’uomo che ha accettato tutti i compromessi, l’individuo che solo il male riesce ancora ad animare, a commuovere. È veramente esemplare, in questo senso, la galleria di personaggi creata da Visconti: esseri malati e sconfitti, battuti, isolati, ma sempre visti sotto il rapporto del loro legame con la società, con il sistema dal quale sono prodotti e poi distrutti.

Chi ha visto edizioni straniere di drammi poi messi in scena in Italia da Visconti (Zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, A porte chiuse, La via del tabacco, Morte di un commesso viaggiatore) ha sempre notato che nell’edizione italiana il dramma veniva esasperato; le scorie sentimentali, i ricordi culturali erano annullati, bruciati: restavano solo i personaggi e la loro inesorabile corsa verso la fine, la morte. La crisi del teatro borghese ha in Visconti un illustre fuori classe: essa è vista da lui spietatamente, senza debolezze o compromessi, e perciò stesso « realisticamente »: alla maniera, vorrei dire, con cui si comporta Balzac nell’illustrare e colpire la sua società, o meglio ancora, come Dostoievski, senza cioè contrapporre a questa rappresentazione un mondo nuovo, di apporti più semplici, spontanei, liberi. C’è da dire oltre tutto che il regista è un uomo .che si serve di mezzi che altri, gli scrittori, debbono offrirgli. E certamente non sono molti oggi in Italia gli scrittori in grado di offrire materia adatta ai suoi spettacoli.

Volendo parlare dell’importanza culturale di Visconti siamo venuti a discutere anche della sua importanza artistica, che non è del resto un fatto perfettamente isolabile. La domanda che occorre porsi in questo senso è la seguente: « Trattandosi di un interprete, non di un creatore (nel senso tradizionale dei termini, naturalmente), in che misura questo regista si è servito (artisticamente) dei mezzi che la sua posizione culturale gli ha fatto scegliere invece di altri? ».

Qui dovremmo toccare, se lo spazio ce lo permettesse, molte questioni: il suo metodo di mettere in scena, poiché è possibile in questa sua esperienza rintracciare gli elementi d’una ricerca, d’una riflessione; il suo rapporto con gli attori, con i testi e infine con tutti i mezzi che concorrono alla creazione teatrale. Ma, purtroppo, non possiamo che accennare a questi argomenti.

Bisogna comunque dire che Visconti si serve del suo testo assolutamente in funzione critica, contemporanea; egli non si pone il problema, assurdo in se, antistorico, di realizzare l’opera in quello che potrebbe essere il clima (il che significherebbe essere un eclettico, semplicemente un tramite; come è, per esempio, Strehler, che passa tranquillamente, e abilmente, certo, da un’atmosfera cecoviana intesa alla Stanislavski, all’espressionismo, così invecchiato, di Toller, dal balletto per Thornton Wilder al naturalismo per Gorki, al metafisico per Pirandello; e ovviamente, quando interpreta Shakespeare, ricorre ad un formalismo preziosamente intellettualistico). Visconti, al contrario, piega alle sue esigenze l’opera drammatica, la porta ad esprimere un diverso, più ampio e significativo contenuto. Giacché egli è fra i pochi ad essere compiutamente artista, ad avere quindi una sua concezione del mondo, il che lo ha portato a scegliere nell’arte e nella vita una posizione di combattimento, a non idolatrare « il teatro per il teatro », a non essere « al disopra » della società, ma dentro di essa. La sua scelta del testo ha quindi un significato, e così il modo che egli ha di servirsene.

Un rapporto simile è quello che lega Visconti agli attori che lavorano con lui. Si è parlato di un Visconti dittatore, di un regista che sottomette l’attore alla sua interpretazione, ed in parte è vero. Certo sarebbe preferibile che nel teatro italiano esistesse quel rapporto che ho visto assistendo, a Praga, al Realistické Divadlo, alle prove di Palous su un dramma di Gorki. La figura del regista non era lì altro che quella del relatore d’una discussione: intervenivano tutti, discutevano, provavano, suggerivano, in una perfetta atmosfera di collaborazione. Ma ciò significa che gli attori erano tutti, dal primo all’ultimo, preparati a discutere, ad apprezzare il valore d’una collaborazione; essi costituivano quello che si dice un « collettivo » teatrale, non una compagnia formata un mese prima e pronta a disfarsi una settimana dopo; pur essendo sviluppatissimo il senso del contributo individuale, non c’era in essi alcun spirito del divismo che ancora regna sovrano sulla nostra scena (e non è sempre, come si crede, colpa dei nostri attori, ma piuttosto dell’ambiente in cui sono costretti a lavorare, un ambiente dove è inutile chiedere solidarietà, collaborazione, ma dove vige soltanto la legge della concorrenza più sfrenata e aperta a tutti i mezzi, leciti e illeciti). La differenza mi sembra evidentissima. Visconti è forse l’unico nostro regista in grado di unificare, di superare i singoli temperamenti, di fare, malgrado e contro questa situazione, uno spettacolo che abbia uno stile, una direzione, un senso. unico. Naturalmente occorreva una personalità maggiore di quella dei nostri attori e delle nostre prime attrici con le quali tanti autorevoli registi, a dire il vero, si trovano a mal partito, lasciando il campo così ai giovinetti che « assistono » alla formazione dello spettacolo. Occorreva, cioè, ci si permetta l’espressione, quello di cui sentiva il bisogno Machiavelli quando chiedeva un « Principe » che impersonasse la lotta contro il vecchio ordine per la creazione di un nuovo Stato. Noi dovremmo augurarci, come pure Machiavelli si augurava, che dal mito del Principe nasca una nuova « volontà collettiva» in lotta appunto contro l’attuale struttura « corporativa » del teatro italiano, contro quell’« equilibrio passivo » sul quale ancora oggi, ma con chiarissimi sintomi di rinnovamento, sembra reggersi. Che dall’esperienza di Luchino Visconti nasca cioè una nuova « scuola » di registi e di attori decisi a condurre innanzi la lotta verso obbiettivi più popolari.

Non credo, personalmente, che siamo molto lontani da quel momento: gli annunci d’un teatro « nazionale-popolare » organizzato da Vittorio Gassmann (un attore che ha fatto, vicino appunto a Visconti, la sua maggiore preparazione) sull’esempio di quanto in Francia, con grandissimo successo sta facendo e da qualche tempo, Jean Vilar; lo studio d’una grande formazione triennale che raccolga, vicino a Visconti, nomi come quelli di Rina Morelli, Sarah Ferrati, Ingrid Bergman, Paolo Stoppa e Gino Cervi, sono l’inizio d’una stagione veramente « moderna » dello spettacolo italiano, che non può non avere immediate risonanze anche sugli scrittori, sul pubblico, sulla critica. Anche di questo, prima ancora che l’impresa venga iniziata, bisogna dar merito a Visconti.

Ed ora lasciamo gli altri argomenti nella penna, compreso, purtroppo, quello di Visconti regista cinematografico. Diamo appuntamento all’incontro Visconti-Brecht quando vedremo, forse assai presto, Madre coraggio e i suoi figli nell’edizione italiana.

Luciano Lucignani