Milano, 17 ottobre 1960

« Rocco e i suoi fratelli » narra le vicende di una famiglia di contadini lucani che immigrano a Milano in cerca di lavoro, seguendo l’esempio di migliaia d’italiani del Sud, Questo fenomeno migratorio, cominciato nell’immediato dopoguerra, ebbe dapprima andamento irregolare, con alti e bassi improvvisi e fortissimi, sin quando prese, negli ultimi anni, un ritmo di graduale ascesa. Secondo le statistiche, nel 1955 si trasferirono a Milano 3.400 meridionali e 1.973 sardi e siciliani; nel 1956 furono rispettivamente 5.568 e 1.667; nel 1957 si passò a 6.874 e 1.912; nel 1958 a 10.516 e 2.905. Mancano successivi censimenti; il Comune di Milano ha diviso la città in 134 zone, per effettuare un censimento completo che comprenda anche i « clandestini ».

Le vicende della famiglia Parondi (si chiamavano Pafundi ma il cognome fu modificato per non urtare la suscettibilità di un omonimo ex-procuratore della Corte di Cassazione) si articolano attraverso cinque capitoli, ognuno dei quali prende il nome dei cinque figli disposti in ordine di età: Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro e Luca. Più che un episodio, quello di Luca è un epilogo che occupa circa dieci minuti delle tre ore del film. La sceneggiatura comprendeva anche un prologo, che si svolgeva in Lucania e che s’intitolava « La madre »: prologo cui si rinunciò per esigenze di tempo e che non fu mai girato.

L’ambizione della tragedia

Nella sua rigorosa e complessa struttura, « Rocco e i suoi fratelli » è un dramma sociale che sfocia nella tragedia. A Rosaria, la madre, che rappresenta il passato si contrappone Luca, l’avvenire, mentre gli altri quattro fratelli sono il presente. Al vertice sono Rocco e Simone; i due volti della duplice tentazione angelo-demonio; e quando il loro rapporto trova una concreta e dolente immagine nell’abbraccio sul letto dopo l’assassinio, la tragedia tocca il suo acme. Ai due protagonisti si aggiungono due figure di donna: Nadia, la prostituta, fa da catalizzatore e da vittima della tragedia (corrompe Simone e mette in opera la volontà redentrice di Rocco) e Rosaria, la madre, ne è coro e partecipe inutilmente propiziatrice. Ma, sullo stesso piano della tragedia, il romanzo continua, conservando intatte le possibilità di un giudizio storico, nelle figure minori: Vincenzo e Ciro, entrambi personaggi di secondo grado e un po’ convenzionali, ma negativo (incosciente) il primo, positivo (cosciente) il secondo cui, a mo’ di coro, è affidato nell’epilogo il compito di trarre la morale degli avvenimenti. Quasi contrapponendosi alla nostalgia mitica e romantica di Rocco per la Lucania natia (il motivo del ritorno alla terra patria che gli autori, probabilmente contraddicendo alla realtà dei fatti, danno come un postulato, è uno dei motivi dominanti del film). Ciro preannuncia al piccolo Luca che sarà lui, forse, a tornare in Lucania ma quando anche laggiù gli uomini avranno imparato a far valere i loro diritti e a imporre agli altri i loro doveri.

La simmetria del film è rinvenibile anche nel parallelismo tra prostituzione (Nadia) e pugilato (Rocco, Simone), rappresentati entrambi come strumenti di alienazione, di servitù, specchi crudeli delle contraddizioni e delle piaghe della società. Ricollegandosi a « La terra trema », la sua interpretazione marxistica dei « Malavoglia » di Verga, Visconti stesso ha dichiarato che, come in quel film ’Ntoni e i suoi tentavano l’impresa del « carico dei lupini », così in questo i figli di Rosaria tentano il pugilato.

Le matrici letterarie

Fatto il nome di Verga, bisogna dire che le matrici letterarie di « Rocco e i suoi fratelli» sono diverse: le « cronache » milanesi di Giovanni Testori (« Il ponte della Ghisolfa ») che gli hanno suggerito: non soltanto fatti e figure ma soprattutto il colore cupo e l’aria spettrale di certi ambienti di periferia; Thomas Mann, il grande realista tedesco, di cui si trova un’analogia (« Giuseppe e i suoi fratelli »), nel tema biblico del sacrificio e nella potente struttura polifonica della narrazione. Poi, Dostoevskij. La tappa delle « Notti bianche » non è stata una parentesi nel lavoro di Visconti: dostoevskiano è, nella sua « innocenza », Rocco, fratello spirituale del Myskin de « L’idiota », come il rapporto mistico tra Rocco e Simone, che Visconti sottolinea alla fine con un’accentuazione sin troppo spettacolare, nel montaggio parallelo tra Rocco che si batte sul ring e Simone che uccide Nadia all’Idroscalo.

C’è, infine, l’omaggio ai grandi meridionalisti, a quei galantuomini intemerati come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini che, primi, richiamarono l’attenzione degli italiani e dei loro governanti sul problema del Mezzogiorno.

È questo, infatti, il piedistallo del film: il problema del Mezzogiorno, questa cattiva coscienza della Nazione italiana, che Visconti e i suoi sceneggiatori hanno prospettato nella sua forma più attuale, quella dell’emigrazione interna, quella dell’ integrazione non soltanto fra due società (quella semifeudale del Sud e quella industriale del Nord) ma fra due mentalità, fra due concezioni di vita.

Alle frontiere del sadismo

Questa complessa mediazione storico-letteraria è la premessa di una tragedia italiana in cui tensione morale e potenza d’evocazione drammatica, passioni antiche e problemi moderni, puntiglioso realismo e pause liriche, l’esaltazione tragica e sgradevolezza realistica, eccessi polemici ed esasperazioni formali sono ridotti in unità di verità e di poesia.

Non occorreva essere profeti per prevedere che « Rocco e i suoi fratelli » avrebbe suscitato, nell’incontro con il pubblico delle « prime », una reazione analoga a quella della « Dolce vita » di Fellini. A Venezia come a Milano l’altra sera, molti spettatori hanno reagito con violenza a quello che è, insieme con l’ambizione di far tragedia e la complessità della architettura narrativa, uno dei tre aspetti principali del film: la sgradevolezza premeditata di alcune scene.

Tra i due film c’è una differenza: alla soffocante esibizione dell’erotismo squallido di Fellini, Visconti ha sostituito l’urto martellante di una violenta spinta alle frontiere del sadismo e del cattivo gusto. Sono limiti che Visconti ha toccato non soltanto nei fatti (uno stupro, un selvaggio regolamento dei conti, un incontro ambiguo dalla latente carica omosessuale, un efferato assassinio) e nella loro rappresentazione ma anche nell’esasperata orchestrazione di toni urlati, di momenti narrativi ora morbosamente insistiti ora estetizzanti ed atteggiati.

Non sono soltanto i passaggi obbligati di un artista che, ai pari di Stroheim, si è proposto il compito di oppositore a un certo assetto sociale, di registratore di crolli, di profanatore di romanticismi ma, qua e la, cadute di gusto o errori di regia o intemperanze. Tra le prime: l’esibizione delle « culottes » di Nadia nella scena dello stupro; tra i secondi, l’artificiosa e teatraleggiante scenografia della stessa scena, la sequenza del sangue che passa da un componente all’altro della famiglia Parondi; tra le terze: l’inutile prolungamento dell’abbraccio urlato tra i due fratelli. Si direbbe che a volte manchi a Visconti quella che il Buonarroti chiamava l’arte del togliere.

Ma sono peccati e vizi ed eccessi travolti dalla profonda unità di ispirazione e di stile che anima tutto il film, dalla sua originale potenza di tragedia moderna.

È eloquente, a questo proposito, la scelta, a nostro modo di vedere, discutibile, della celebre teatrante greca Katina Paxinou (chi non la ricorda in « Per chi suona la campana »?) nella parte della madre. Attraverso Milano e la Lucania Visconti ha portato il nordico Dostoievskij nel Sud della tragedia greca calata in concrete dimensioni storiche. È soltanto in questa chiave tragica che si comprende perché, nonostante le sue note posizioni ideologiche, Visconti ha tenuto sul fondo gli aspetti economici e sociali; su un piano strettamente realistico non si giustificherebbe, per esempio, l’improbabilità di Delon come campione di boxe e della Paxinou come contadina lucana. È questa raggiunta ambizione tragica che fa di « Rocco e i suoi fratelli » il film di Visconti più accessibile al pubblico, il massimo sforzo da lui compiuto e, forse, la sua opera più matura.

Rimangono le insistenze, le iterazioni, i compiacimenti cruenti; insomma, la volontà. non sempre giustificata, di provocazione. Rispondere che Visconti partecipa di quell’estetica della crudeltà che è caratteristica fondamentale della narrativa del nostro secolo e che ha tanti e così illustri rappresentanti, non basta. Il discorso dovrebbe coinvolgere due aspetti della personalità viscontiana: la crudeltà, intesa come retaggio aristocratico, e la sua misoginia. Non tutte le compiaciute crudezze del film sono necessarie anche perché contrastano con il ritmo spedito del film, con il diretto approccio delle situazioni e dei personaggi, con la dolorante umanità dei suoi personaggi. L’interpretazione dei tre attori principali — Alain Delon, Renato Salvatori, Annie Girardot — è memorabile. Rotunno, direttore della fotografia, conferma di essere il degno erede di Aldo, il suo grande maestro; con i suoi motivi musicali Nino Rota porta nel film un pizzico di fellinismo. E non è di danno.

Morando Morandini
(La Notte)